giovedì 6 ottobre 2011

SIMENON. UNA VITA IN VETRINA

Mémoires intimes pur non essendo un romanzo ma un'opera autobiografica, diremmo quasi cronachistica, è uno dei titoli più citati di Simenon. Lo scrittore si mette in vetrina, anche se questo l'ha gia fatto con altri libri autobiografici (vedi il post del 4 aprile  Simenon ci racconta sé stesso), dedicando il racconto della sua vita ai figli, anzi soprattutto alla figlia suicida, Marie-Jo, come era successo per Je me souviens (1940) (vedi il post di sabato 9 luglio Simenon si ricorda...) quando, preoccupato di dover morire da lì a un paio d'anni, voleva lasciare un ricordo di sé e della propria famiglia al figlio, Marc, allora suo unico erede.
Un Simenon sincero che non nasconde nulla di sé, anche i lati meno edificanti, per di più raccontandolo ai figli.... quasi senza nessuna forma di pudore.
Ma è proprio così?
Ad esempio il suo autorevole biografo, Pierre Assouline, nel suo Simenon Biographie (2004) esprime qualche perplessità "...il progetto di Mémoires intimes più che la vanità dell'autore, mostra la volontà di rimettere in sesto l'immagine di sé stesso...". In effetti Simenon era stato anni prima al centro di una polemica al seguito della pubblicazione di libri e delle dichiarazioni di Denyse, la seconda moglie, che lo avevano in parte diffamato, attirando l'attenzione più morbosa dei media, ovviamente amplificata dalla fama e dall'autorevolezza del personaggio.
Ma l'opera sottintende anche l'intenzione di scrivere lui stesso la biografia ufficiale di... Georges Simenon, mentre giravano notizie di altre biografie che erano in preparazione su di lui in America e in Inghilterra. Era come mettere in mora chiunque volesse scrivere su di lui e soprattutto sulla sua vita privata.
E la sua volontà a 77 anni di voler compilare un libro che risulterà di oltre mille pagine, é talmente forte che aveva lasciato disposizioni affinchè, in caso di sua morte o di sua incapacità a terminare il libro, l'incarico di portalo a termine era affidato alla sua compagna Teresa Sburelin e alla insostituibile responsabile dell'allora Secretariat-Simenon, M.me Joyce Aitken.
Invece alla fine il libro fu scritto tutto da Simenon in nove mesi, da febbraio a novembre del 1980, e uscì l'anno successivo ad ottobre, giusto giusto trent'anni fa'. Insieme a Mémoires intimes, Simenon  volle che nello stesso volue fosse pubblicato Le livre de Marie-Jo, come a legare il ricordo della sua vita a quello della figlia tragicamente scomparsa. Ma di questo faremo oggetto di un prossimo post dedicato specificamente a questo tema.

mercoledì 5 ottobre 2011

SIMENON. I NOMI DELLA STORIA E LA STORIA DEI NOMI

Sappiamo che tra le varie preparazioni che precedevano la stesura di un romanzo c'erano non soltanto gli appunti sulle famose buste gialle con i nomi dei protagonisti, dei personaggi di contorno i rapporti tra di loro, nomi, cognomi, date, indirizzi, cronolgie, appunti vari... Erano infatti immancabili gli elenchi, vergati a mano, con centinaia di nomi e cognomi, che magari gli servivano per personaggi non previsti, oppure per più di un romanzo. E poi come non ricordare la nutrita serie di elenchi del telefono, lì sullo scafffale, ovviamente lì pronti a fornire altre valanghe di nomi. Chiunque si sia messo a scrivere anche solo un racconto per il solo piacere personale, si è scontrato con il problema dei nomi. Vista da fuori, può sembrare che la scelta di un nome valga un'altra. Che uno si chiami Michel Sabord o Jean Reboux che diferenza fa? Simenon sapeva bene che il nome di un personaggio in un'opera scritta è importante. Il nome si porta dietro per ognuno di noi una storia diversa, viene associato a delle persone buone, antipatiche, interessanti, cattive, simpatiche, insulse e tutto questo ha una sua influenza. Ce l'ha per il lettore, ma prima ancora per lo scrittore.
E poi c'é una sorta di musicalità che si deve accordare con il tipo di personaggio... si prova e si riprova... si scrive, si pronuncia, si pensa a quando moglie, colleghi, figli, amici, amanti, genitori lo chiameranno... Come risuonerà quel nome legato a quella faccia? Addirittura alcuni nomi, o nomi e cognomi, possono arrivare suggerire a chi scrive qualche caratteristica.
Questa valanga di nomi che Simenon teneva lì pronti, di scorta, dovevano essere una sorta di sicurezza... In quel pozzo sapeva di trovare sempre quello che gli serviva.
Certi cognomi invece nascevano più facilmente, quasi naturalmente, come Berenheim (in Les Pitard - 1935) un collega di lavoro della madre, oppure Donadieu che leggiamo appunto ne Le Testament Donadieu (1937, ma anche in Touriste de bananes (1938) e in 45° à l'hombre (1936) che non era altro che il nome di un commerciante di vino e birra che faceva pubblicità su Paris-Centre del marchese de Tracy, da lui notato quando nel '23 era al suo servizio come segretario.
Lo stesso Maigret sembra fosse un funzionario di polizia di Liegi, che lui aveva conosciuto ai tempi de La Gazette de Liége.
Ma avere una lista di nomi aveva anche un funzione pratica, impediva, magari ai personaggi secondari un cambio di nome che pur con quella precauzione qualche volta sfuggiva a tutti, compresa la sua Doringe, la terribile correttrice dei romanzi di Simenon. E comunque proprio lui ammetteva: "...mi capitava di cambiare nome dei miei personaggi nel corso della storia. Meglio ancora: in sede di revisione questa anomalia mi sfuggiva e si possono trovare certi miei libri dove la 'bonne' si chiami Amélie nel primo capitolo e Josette dopo il quinto..."

martedì 4 ottobre 2011

SIMENON. SOSTIENE MAIGRET

"...se fosse stato ancora più disordinato nel suo vestire, lo si sarebbe potuto prendere per un vagabondo... Non era verosimie che avesse colpito un giovanotto con sette coltellate e che poi fosse scappato. L'assassino non era venuto in macchina nel quartiere, era quasi certo.Era più probabile che avesse preso la metropolitana alla stazione Votaire, vicinissima al luogo dell'aggressione..."
E' quanto sostiene Maigret circa a metà dell'inchiesta da poco in libreria Maigret e l'assassino di rue Popincourt, sì proprio la stessa annunciata a luglio con il titolo Maigret e l'assassino e poi mai pubblicata, e visto che parliamo di titoli vari vogliamo qui ricordare anche la versione Oscar Mondadori del 1970 che s'intitolava Maigret e il capellone imprudente! Ancoriamoci quindi saldamente al titolo dell'opera originale Maigret et le tueur scritto ad Epalinges nell'aprile del '69.
Il morto accoltellato cui accenna Maigret era Antoinre Bataille, un giovane di circa vent'anni, con una giacca di pelle, capelli lunghi trovato bocconi sul marciapiedi e la schiena trafitta da numerosi fendenti.
La classica inchiesta del commissario avrà un epilogo molto inconsueto, che avrà le  caratteristiche più della seduta psichiatrica che del'interrogatorio, e che infatti, invece di svolgersi al Quai des Orfévres, avrà luogo nel salotto a casa di Maigret.
Appena uscito in libreria, Maigret e l'assassino di rue Popincourt già si affaccia nella top ten delle classifiche. Lo troviamo nella sezione Narrativa Straniera, pubblicata da Il Corriere della Sera il 29 settembre che lo dava già all'ottavo posto.

lunedì 3 ottobre 2011

SIMENON. IL SUO "CLAVICEMBALO" BEN TEMPERATO

1981. Simenon ha smesso di scrivere da otto anni, quando redige Mémoires intimes, la sua ultima opera, orami ha finito di armeggiare con la macchina da scrivere e con quello che possiamo considerare il suo "clavicembalo": le matite ben temperate... Una vera mania. Basta pensare che, quando scrivendo e temeprandole si accorciavano, Simenon le scartava. Motivo? Sosteneva che per essere ben impugnata e poter scrivere adeguatamente, la matita deve essere di una certa lunghezza, al di sotto della quale rende la scrittura meno scorrevole e in qualche modo influenza il flusso delle idee che vanno trasferite sulla carta. E quindi aveva cassetti pieni di matite per lui ormai inservibili.
E in proposito Simenon, riferendosi agli anni '60, si preoccupa di sfatare alcuni luoghi comuni sui suoi rituali di scrittura.
"...Si è fatto un gran parlare delle mie cinque dozzine di matite, le hanno fotografate, filmate, ho anche dovuto temperarle con la mia macchinetta davanti alle cineprese. E' nata così la leggenda che ha però un fondo di verità e che voglio precisare. Quando ero negli Usa, e mi apprestavo a iniziare un romanzo, ne scrivevo la sera prima alcune righe che mi sarebbero servite come punto di patenza la mattina dopo, quando mi sarei messo alla macchina da scrivere. Quelle righe buttate giù, su blocchi di carta gialla, sono diventate alla fine... un intero capitolo scritto in una grafia piuttosto minuta che esigeva delle matite molto appuntite..."
Insomma un sistema che per un certo tempo ha influenzato non solo il modo materiale di scrivere, ma anche lo stile di Siemenon, che in proposito raccontava su Mémoires intimes "...Ho adottato per molto tempo questo sistema, poi mi sono accorto che quando si scrive a mano si è tentati di abbellire le frasi, di fare della 'letteratura' e questo è contrario ai miei gusti...".
Una delle varie dimostrazioni. Pedigree, ad esempio, iniziato a matita su dei quaderni, fu continuato poi a macchina. Quello delle matite poi era un emblema di tutti i rituali di scrittura, ma che spesso poi con il tempo diventavano solo dei simboli senza nessuna funzione.
"...Certo mi piaceva temperare le mie matite,  fino a rendere la loro punta molto accuminata, ma se ne rimane ancora qualcuna sulla mia scrivania o accanto al telefono, da più di quindici anni serve soltanto per prendere appunti che non riguardano più i romanzi che scrivo...".

domenica 2 ottobre 2011

SIMENON. LE COLONIE E LA COSIDETTA CIVILIZZAZIONE

Simenon durante il suo viaggio nell'Africa centrale
Negli anni '30 le grandi nazioni europee, erano quasi tutte dei paesi colonialisti: la Francia, l'inghilterra, la Germania, anche il Belgio, l'Olanda e poi, nel suo piccolo, anche l'Italia.
Simenon, che proprio in quegli anni aveva viaggiato per l'Africa in lungo e in largo, riportò una pessima impressione di questa "civilizzazione" di cui i governi del vecchio continente si riempivano la bocca per nascondere invece uno sfruttamento di questi posti e una totale sottomissione degli indigeni. Il romanziere scrisse diversi reportage denunciando senza mezzi termini questa situazione, sia negli articoli ma anche in alcuni romanzi.
"...E a dispetto dei suoi vestiti di Nouvelles-Galeries, della sua macchina per scrivere, della sua Kodak, è lo stregone il vecchio buon uomo mezzo nudo nella sua capanna che il negro va a visitare la sera, di nascosto, a chiedere consiglio - scrive Simenon nel '32 in "L'heure du nègre" - Non c'è rimasto altro della dignità africana: una capanna di rami, un fuoco, dei corpi lucenti..."...
Quello del colonialismo, dei diritti dell'uomo e della sua auto-determinazione erano temi cavalcati dai progressisti dell'epoca, dai partiti di sinistra da quelli socialisti ai comunisti.
Ma anche Simenon era disgustato di come si comportavano gli europei. Parlando del colonialismo del suo paese Simenon era infatti decisamente critico ".. un colono belga, non solo crede di essere sminuto nel parlare ad un negro, ma è anche obbligato a parlargli nella sua lingua, perchè si vuole impedire agli indigeni di imparare il francese...". Poi se la prende con la legge che impedisce ad un bianco di sposare una negra anche se si tratta di quella che vive con lui, gli fa da domestica, e spesso è anche la sua compagna sessuale. Ma quando arrivano visite, si deve nascondere agli occhi di tutti, come non esistesse.  
E su questo tema ne ha anche per gli inglesi, "..Kartoum, come qualsiasi città coloniale inglese, non somiglia a nessun altra città coloniale.... che infatti sono quasi uguali di quelle in Europa... Ma c'è qulacosa che vi sciocca. Vi chiedete cos'è. E alla fine scoprite che è la mancanza di indigeni, salvo i domestici. I negri sono altrove...".
E d'altronde proprio in quegli anni la Citroen aveva organizzato un raid automobilistico africano, lanciandolo con lo slogan "L'Africa vi chiama!" E Simenon polemicamente scrisse un articolo intitolato "L'Africa vi chiama e vi dice merde!".

sabato 1 ottobre 2011

SIMENON DA UN ARTE ALL'ALTRA.

Ritratto di Simenon dipinto dalla prima moglie Tigy
Ma Simenon era un appassionato dell'arte? Beh a suo modo e con delle modalità tutte sue. Ad esempio per quanto riguarda la pittura era lui stesso che definiva quello che gli altri chiamavano le atmosfere simenoniane "l'impressionismo dei pittori applicato alla letteratura". E con la pittura, grazie alle frequentazioni avute con Tigy, la sua prima moglie, pittrice anche lei, l'amicizia con Vlaminck, aveva un rapporto costante e competente. Le sue preferenze? Monet, Renoir, Giotto, Van Gogh, Rembrandt, tanto per citare qualche nome.
In fondo quello che lo seduceva delle arti "altre" dalla letteratura, era l'aspetto artigianale, gli strumenti per realizzarla, il lavoro manuale che si nascondeva dietro ogni opera d'arte. Proprio come considerava sé stesso, un artigiano della scrittura.
Per quanto riguarda la musica invece dichiarava di adorarla tutta, dalla classica al jazz, a partire da Bach, Schubert, Schumann fino ad arrivare a Gershwin e quindi al dixieland di New Orleans. Ma considerava la musica un fatto privato, molto privato, tanto da non essere mai andato ad ascoltare un concerto. Non concepiva infatti l'idea di sentire della musica insieme agli altri. "Ci si deve nascondere per fare quelle cose!", affermava considerandolo come un comportamento indecente...
Nelle sue dichiarazioni ritroviamo anche riferimenti alla scultura, ma sempre in riferimento alla sua letteratura. Una delle similitudine che gli piaceva usare era infatti "... scolpire un romanzo in un blocco di legno...".
Anche per la settima arte provava una certa attrazione. Era un ambiente che conosceva bene. A parte le esperienze professionali, contava diversi amici che vi lavoravano, da Renoir, a Chaplin, da Gabin a Fellini con il quale si sentiva in grande sintonia e non era solo un fatto di sensibilità umana e artisica, ma anche una analogia nella genesi del film e del romanzo, come se nel modo di costruire un film  da parte di Fellini ritrovasse alcune delle esperienze che lui stesso viveva quando creava un'opera letteraria.
E d'altronde il suo concetto di artista era molto particolare "...l'artista é innanzitutto un malato, in tutti i casi un instabile, se i medici hanno ragione, e io sono tentanto di crederlo. La sua inquietudine lo spinge a immaginare i mali degli altri e a viverli. E' una spugna, quasi un relitto. Perché volete vedere in questo una superiorità? Io avrei piuttosto voglia di scusarmi...".