giovedì 10 novembre 2011
SIMENON. LA FINE DI UN AMORE IN FONDO A UN BICCHIERE
"... si sente bene, appena un po' sfasato, l'andamento leggermente oscillante, ma è convinto che non si veda. Si dirige verso i lavabi, lo fa per guardarsi allo specchio e sapere se avrà la possibilità di un ultimo bourbon...".
Così Simenon descriveva l'inizo della sbornia di un alcolizzato ne Le fond de la bouteille (1949). Il problema dell'alcolismo aveva ad un certo momento lambito lo scrittore. E aveva toccato, ma in modo sempre più pesante, la sua seconda moglie. Il clou per Simenon si verificò negli Stati Uniti dove, scoprì che c'era una propensione generale a bere dalla mattina alla sera, tra aperitivi già in mattinata, birre durante i vari snack e poi cocktail o liquori nei locali, nelle feste, nei ricevimenti. Non era più il vino durante i pasti o quel bicchierino di cognac o di calvados dopo cena.
"...ho bevuto anch'io, specie negli Stati Uniti e in Canada. E' vero però che bevevo a periodi, perchè quando preparavo, scrivevo o rivedevo un romanzo mi imponevo un'assoluta astinenza - racconta lo scrittore in Mémoire intimes (1981) - Calcolando cinque, sei romanzi all'anno quante settimane restano di trasgressione?...".
Un'espressione è particolarmente significativa:"mi imponevo un'astinenza assoluta". Questo ci chiarisce quale sforzo dovesse fare per non bere. Non scrive "smettevo di bere" o più semlicemente "non bevevo". E non era uno che utilizasse le parole a caso! Il verbo "mi imponevo" dà perfettamente l'idea di quanta forza di volontà avesse dovuto impiegare per tenersi lontano dall'alcol.
La notte e l'alcol, un accoppiata micidiale. C'è tutta un iconografia letteraria e cinematografica di personaggi che in un locale di lusso o malfamato, da soli a casa propria o in compagnia dagli amici tiravano le ore piccole mentre si versavano fiumi di wiskey, gin, cocktail vari... e tutti bevevano, chi fino a liberarsi di ogni freno inibitore, chi finendo la serata chiuso nella toilette e chi crollando definitivamente tanto da dover essere riportato a casa a braccia dagli amici.
Simenon si salvava "...inoltre so quasi sempre fermarmi in tempo, me ne vado a letto e tutto finisce lì..."
Ma in realtà non fu sempre così. Per Georges e Denyse, che non si sottrassero a questa consuetudine made in Usa (vedi anche il post del 20 luglio Simenon e l'alcolismo ), la situazione iniziò a peggiorare al punto che loro stessi decisero di smettere, o per lo meno di permettersi solamente la birra. "... siamo diventati astemi nel 1949 - scrive Simenon nel 1961 in Quand j'étais vieux - questo vuol dire circa undici anni, ma questo non mi impedisce di considerarmi come un alcolista...".
Ma l'alcol continuerà a perseguitare Simenon attraverso la moglie che, negli anni successivi al rientro in Europa, insieme agli squilibri mentali riprese a bere. E questo complicò ancor di più il problematico rapporto tra i due, anche se Simenon sapeva che quel vizio era una conseguenza della situazione mentale di Denyse. Ma possiamo dire che il comportamento della signora Simenon, sotto l'influenza dell'alcol, fu la goccia che fece traboccare il vaso e naufragare la loro convivenza.
martedì 8 novembre 2011
SIMENON. LA TRENTESIMA CASA
Peschiamo ancora nel ricco repertorio dell'I.N.A. (l'Istituto Nazionale francese per l'Audiovisivo e prodotto dall' Office national de radiodiffusion télévision française) per potervi presentare un'altra testimonianza in video sullo scrittore, che rappresenta uno spezzone dell'intervista di Pierre Desgraupes a Simenon a Epalinges, nei pressi di Losanna, in quella grandiosa villa che è stata costruita secondo i suoi dettami ad iniziare dalla lettera "S" ai lati dell'ingresso monumentale al campo.
Simenon gli mostra dalla finestra il paesaggio davanti a loro: dalle Alpi ai Jura. Georges Simenon passa poi a spiegare il motivo per cui ha voluto due uffici. Il tour prosegue con l'infermeria, la sala giochi per i bambini. Spiega che ha insonrizzato le sue porte e le finestre accenna al suo barometro e alla banderuola visibile da ogni parte della casa. Quindi, seduto alla sua scrivania impegnato con un temperamatite elettrico, afferma che le sue matite sono la "macchina da scrivere", spiegando come ormai non scriva più di 3 o 4 romanzi l'anno perché gli costa sempre una maggiore fatica. Poi racconta come ogni sabato, con la sua Rolls Royce, e il suo autista Gino va a fare shopping a Losanna. Tutto nella sua casa n°30.
Simenon gli mostra dalla finestra il paesaggio davanti a loro: dalle Alpi ai Jura. Georges Simenon passa poi a spiegare il motivo per cui ha voluto due uffici. Il tour prosegue con l'infermeria, la sala giochi per i bambini. Spiega che ha insonrizzato le sue porte e le finestre accenna al suo barometro e alla banderuola visibile da ogni parte della casa. Quindi, seduto alla sua scrivania impegnato con un temperamatite elettrico, afferma che le sue matite sono la "macchina da scrivere", spiegando come ormai non scriva più di 3 o 4 romanzi l'anno perché gli costa sempre una maggiore fatica. Poi racconta come ogni sabato, con la sua Rolls Royce, e il suo autista Gino va a fare shopping a Losanna. Tutto nella sua casa n°30.
SIMENON. TRADUZIONI TRA TORMENTI E TRADIMENTI
Nell'ambito degli incontri sulla traduzione letteraria organizzati dalla Biblioteca San Giorgio a Pistoia, sarà Ena Marchi ad illustrare il prossimo 2 dicembre il lavoro sulla traduzione dei romanzi di Simenon.
Quello della traduzione è stato, almeno fino a qualche tempo fa', un tema se non proprio ignorato, sicuramente sottovalutato. I traduttori se ne sono, giustamente, sempre lamentati, infatti se ci pensate bene il passaggio da una lingua ad un'altra significa il passaggio da un cultura ad un altra, dove il rapporto tra i concetti da esprimere e le parole per renderli comprensibili è diverso. Un esempio, se vogliamo fin troppo facile, riguarda i liguaggi dialettali. Vi siete mai chiesti come verrà tradotto l'idoma siciliano che infioretta i romanzi di Andrea Camilleri quando vengono tradotti in tedesco o in inglese? E il linguggio gergale? Quando uno scrittore utilizza l'argot parlato dalla malavita di Marsiglia, che fa il traduttore? Alcuni si inventano dei veri e propri linguaggi inesistenti che, ben lontani dall'originale, però rendono, per la lingua in cui sono tradotti, lo stesso effetto e non è certo un problema di facile soluzione per il traduttore. Non bisogna poi ignorare la continua scelta che si pone tra quanto essere fedeli alla lettera dell'originale e cercare di rendere quanto più possibile l'effetto che quel testo produce nella lingua madre, dovendo però sacrificare l'aderenza allo stile o al periodare.
Vediamo cosa pensa Simenon in merito alla traduzione e specificamente a quella delle sue opere in italiano.
"...In Italia sono uno degli autori più difficili da tradurre, non c'è che un italiano letterario in letteratura; altrimenti esistono in ogni regione dei dialetti, delle lingue locali, traducete un po' la mia semplicità di linguaggio nella regione di 'O sole mio'..."
E questa opinione è quella di un persona che viaggiava spesso in Italia e che viene espressa in un'intervista del 1982, non negli anni '40. Siamo alla fine del '900, un periodo in cui da noi si era già persa una certa cultura dell'espressione dialettale, grazie o a causa del condizionamento dato dalla radio e dalla televisione e per la contaminazione delle lingue straniere (l'inglese più di tutti) che avevano omogeneizzato abbastanza il linguaggio, anzi per qualche intellettuale l'avevano addirittura appiattito e banalizzato fin troppo. Eppure visto da un francese, che con i problemi di lingua e di espressione ci lavorava quotidianamente, questo era l'effetto che faceva l'italiano.
Ma la traduzione era stata anche un cruccio per lo scrittore che, come è noto negli Stati Uniti non divenne mai famoso come avrebbe voluto, nonostante i suoi dieci anni di permanenza americana. Sembra che uno dei motivi fosse il tipo di traduzioni proposte sul mercato Usa: un inglese più adatto per la cultura e i lettori della Gran Bretagna, che non per quelli americani.
E' il mistero della traduzione che, quando sa rendere uno stile o talvolta arriva addirittura a migliorarlo, fà la fortuna di uno scrittore anche fuori dei patri confini.
"... se pensate che sono tradotto in paesi dove la gente vive ancora in tende di pelle di cammello...
sembra così strano. Come fanno a capire i miei libri? - s'interrogava Simenon - Non so... forse l'uomo è lo stesso dappertutto...".
Quello della traduzione è stato, almeno fino a qualche tempo fa', un tema se non proprio ignorato, sicuramente sottovalutato. I traduttori se ne sono, giustamente, sempre lamentati, infatti se ci pensate bene il passaggio da una lingua ad un'altra significa il passaggio da un cultura ad un altra, dove il rapporto tra i concetti da esprimere e le parole per renderli comprensibili è diverso. Un esempio, se vogliamo fin troppo facile, riguarda i liguaggi dialettali. Vi siete mai chiesti come verrà tradotto l'idoma siciliano che infioretta i romanzi di Andrea Camilleri quando vengono tradotti in tedesco o in inglese? E il linguggio gergale? Quando uno scrittore utilizza l'argot parlato dalla malavita di Marsiglia, che fa il traduttore? Alcuni si inventano dei veri e propri linguaggi inesistenti che, ben lontani dall'originale, però rendono, per la lingua in cui sono tradotti, lo stesso effetto e non è certo un problema di facile soluzione per il traduttore. Non bisogna poi ignorare la continua scelta che si pone tra quanto essere fedeli alla lettera dell'originale e cercare di rendere quanto più possibile l'effetto che quel testo produce nella lingua madre, dovendo però sacrificare l'aderenza allo stile o al periodare.
Vediamo cosa pensa Simenon in merito alla traduzione e specificamente a quella delle sue opere in italiano.
"...In Italia sono uno degli autori più difficili da tradurre, non c'è che un italiano letterario in letteratura; altrimenti esistono in ogni regione dei dialetti, delle lingue locali, traducete un po' la mia semplicità di linguaggio nella regione di 'O sole mio'..."
E questa opinione è quella di un persona che viaggiava spesso in Italia e che viene espressa in un'intervista del 1982, non negli anni '40. Siamo alla fine del '900, un periodo in cui da noi si era già persa una certa cultura dell'espressione dialettale, grazie o a causa del condizionamento dato dalla radio e dalla televisione e per la contaminazione delle lingue straniere (l'inglese più di tutti) che avevano omogeneizzato abbastanza il linguaggio, anzi per qualche intellettuale l'avevano addirittura appiattito e banalizzato fin troppo. Eppure visto da un francese, che con i problemi di lingua e di espressione ci lavorava quotidianamente, questo era l'effetto che faceva l'italiano.
Ma la traduzione era stata anche un cruccio per lo scrittore che, come è noto negli Stati Uniti non divenne mai famoso come avrebbe voluto, nonostante i suoi dieci anni di permanenza americana. Sembra che uno dei motivi fosse il tipo di traduzioni proposte sul mercato Usa: un inglese più adatto per la cultura e i lettori della Gran Bretagna, che non per quelli americani.
E' il mistero della traduzione che, quando sa rendere uno stile o talvolta arriva addirittura a migliorarlo, fà la fortuna di uno scrittore anche fuori dei patri confini.
"... se pensate che sono tradotto in paesi dove la gente vive ancora in tende di pelle di cammello...
sembra così strano. Come fanno a capire i miei libri? - s'interrogava Simenon - Non so... forse l'uomo è lo stesso dappertutto...".
lunedì 7 novembre 2011
SIMENON. QUESTO COMMISSARIO NON E' INTELLIGENTE
Sì. E' davvero il commissario Maigret. Ed è proprio il suo creatore ad affermare che il proprio personaggio più famoso non sia intelligente. Immediatamente dopo lo definisce intuitivo. Uno degli atteggiamenti in cui lo coglie più spesso è quello di fiutare. E' un gesto, l'utilizzo di uno dei cinque sensi, al tempo stesso molto materiale ma anche molto impalpabile e se vogliamo anche metaforico ed extra-sensoriale.
Maigret non sarà intelligente, ma la coniugazione tra l'intuizione e il fiuto è una di quelle che presuppone una certa sensibilità per capire le situazioni, le mentalità, il modo di ragionare delle persone che incontra nelle sue inchieste e forse addirittura gli consente di vedere più lontano di altri.
Certo l'aspetto pachidermico, lo sguardo, che lo stesso Simenon definisce bovino, non avvicina Maigret agli altri investigatori letterari in voga in quegli anni '30. Non ha il fascino noir di Sam Spade o il fatalismo seducente di Philp Marlowe, non ha le incrollabili e un po' antipatiche sicurezze di Sherlock Holmes, né la vezzosa metodologia d'investigazione di miss Marple. Niente sesso, ma molto cibo, niente azione, ma lentezza e spesso adirittura l'inazione. Inazione apparente però perchè in quell'ozio Maigret "assorbe", lo sottolinea il suo creatore, l'ambiente che lo circonda. Maigret non sembra, ma mette in funzione la sua sensibilità, rizza invisibili antenne. Tutto questo, detto così, non sembrerebbe delineare un personaggio capace di coinvolgere il lettore. Il suo avvio è lento, "bighellona" tra un bancone di un café e la cucina di un portinaia dove cuoce qualcosa, talvolta può sembrare snervante. C'è un omicida in giro e lui che fa? Fiuta nelle pentole, beve Calvados, se ne sta lì a sentire le chiacchiere dei perditempo locali.
Eppure "acchiappa". La gente legge e rimane catturata. Identificazione? Certo il commissario è quanto di più vicino ci possa essere alla gente comune. Un piccolo borghese, con un premurosa moglie casalinga, prende il tram (meglio la piattaforma esterna, lì si può fumare) per andare in ufficio, pardon al commissariato. E' uno di noi? Sì e no. Ci somiglia molto, ma lui quando ha captato la giusta lunghezza d'onda, vede tutto più chiaro, decifra i codici di comportamento, scopre i legami tra vicende e personaggi e imbocca la giusta via. E quando arriva a pizzicare il colpevole ha già capito i pregressi, i motivi che lo hanno spinto e il destino (sì, quello cinico e baro) che gli ha guidato la mano. E decide. Spesso decide che la legge non avrebbe potuto capire, che la legge non sarebbe stata all'altezza della giustizia e allora decide lui di mettere mano e di aggiustare i destini.
Ma con quale diritto. In nome di chi? Beh... Maigret non sarà intelligente, ma ha intuito, ha fiuto e, lo abbiamo detto, di solito ha capito prima di tutti la situazione, sa meglio di tutti, come sarebbe andata a finire la storia e spesso ha il coraggio di cambiare il futuro delle persone.
Chapeau, monsieur Maigret!
Maigret non sarà intelligente, ma la coniugazione tra l'intuizione e il fiuto è una di quelle che presuppone una certa sensibilità per capire le situazioni, le mentalità, il modo di ragionare delle persone che incontra nelle sue inchieste e forse addirittura gli consente di vedere più lontano di altri.
Certo l'aspetto pachidermico, lo sguardo, che lo stesso Simenon definisce bovino, non avvicina Maigret agli altri investigatori letterari in voga in quegli anni '30. Non ha il fascino noir di Sam Spade o il fatalismo seducente di Philp Marlowe, non ha le incrollabili e un po' antipatiche sicurezze di Sherlock Holmes, né la vezzosa metodologia d'investigazione di miss Marple. Niente sesso, ma molto cibo, niente azione, ma lentezza e spesso adirittura l'inazione. Inazione apparente però perchè in quell'ozio Maigret "assorbe", lo sottolinea il suo creatore, l'ambiente che lo circonda. Maigret non sembra, ma mette in funzione la sua sensibilità, rizza invisibili antenne. Tutto questo, detto così, non sembrerebbe delineare un personaggio capace di coinvolgere il lettore. Il suo avvio è lento, "bighellona" tra un bancone di un café e la cucina di un portinaia dove cuoce qualcosa, talvolta può sembrare snervante. C'è un omicida in giro e lui che fa? Fiuta nelle pentole, beve Calvados, se ne sta lì a sentire le chiacchiere dei perditempo locali.
Eppure "acchiappa". La gente legge e rimane catturata. Identificazione? Certo il commissario è quanto di più vicino ci possa essere alla gente comune. Un piccolo borghese, con un premurosa moglie casalinga, prende il tram (meglio la piattaforma esterna, lì si può fumare) per andare in ufficio, pardon al commissariato. E' uno di noi? Sì e no. Ci somiglia molto, ma lui quando ha captato la giusta lunghezza d'onda, vede tutto più chiaro, decifra i codici di comportamento, scopre i legami tra vicende e personaggi e imbocca la giusta via. E quando arriva a pizzicare il colpevole ha già capito i pregressi, i motivi che lo hanno spinto e il destino (sì, quello cinico e baro) che gli ha guidato la mano. E decide. Spesso decide che la legge non avrebbe potuto capire, che la legge non sarebbe stata all'altezza della giustizia e allora decide lui di mettere mano e di aggiustare i destini.
Ma con quale diritto. In nome di chi? Beh... Maigret non sarà intelligente, ma ha intuito, ha fiuto e, lo abbiamo detto, di solito ha capito prima di tutti la situazione, sa meglio di tutti, come sarebbe andata a finire la storia e spesso ha il coraggio di cambiare il futuro delle persone.
Chapeau, monsieur Maigret!
domenica 6 novembre 2011
SIMENON: PERCHE' I FILOSOFI SCRIVONO ROMANZI?
A 73 anni Simenon aveva smesso di scrivere da un anno, ma dettava al registratore alcune sue considerazioni e riflessioni che poi venivano, come si dice "sbobinate", inviate al suo editore Presses de La Cité, che dopo un lavoro di editing continuava così a pubblicare titoli di Simenon, anche se ormai lui non avrebbe scritto più per un lungo periodo, soprattutto per lui (riprese la penna solo per comporre "Lettre à ma Mére" nel 1974 e "Mémoires intimes" nel 1981). Tra il '73 e il '79 sfornò con questo metodo ben ventitre titoli.
E' chiaro che non si trattava più dei suoi fascinosi romanzi o delle accattivanti indagini del commissario Maigret. Come precisava lo stesso autore "... se ho scritto circa duecento romanzi e se una volta ritiratomi ho continuato a dettare con altrettanto accanimento è, anche secondo me, per bisogno. Forse per cacciare i miei fantasmi, come Fellini, ben più giovane di me, continua a fare...".
Insomma erano le sue considerazioni, anche frammentarie, dei ricordi del passato, alcune osservazioni dei fenomeni del presente, a volte critiche e forse anche l'occasione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe.
Ad esempio sappiamo bene con quanta umiltà, perseveranza e programmazione Siemenon abbia perseguito prima un periodo di apprendistato con la letteratura popolare, poi sia approdato a alla semi-letteratura, come lui stesso definiva i Maigret, e poi finalmente, dopo tale trafila, iniziò a scrivere romanzi e a definirsi romanziere. Per dedicarsi completamente ai romanzi lasciò anche la sua attività giornalistica e qualsiasi altrà occupazione connessa. Questo tanto per rendere l'idea di come prendesse con serietà questa sua vocazione.
In Au delà de ma porte-fenetre (Dictées -1973) si interroga sul fatto perché gli intellettuali, e nello specifico i professori, si dedicassero a tempo perso, a scrivere dei romanzi.
"...negli Stati Uniti non è raro vedere un professore di filosofia scrivere, per proprio divertimento e probabilmente per migliorare le proprie entrate, dei romanzi polizieschi. Sono i peggiori, come succede per i romanzi dei filosofi francesi...."
Trapela da queste parole la riprovazione per chi, invece di investire tutte le prorpie energie (come faceva lui) nel proprio mestiere, anche se solo per diletto, le indirizzava verso qualcosa che a lui era costato anni di preparazione (e circa un chilo per ogni giorno di scrittura). E quindi continua "...Hanno l'abitudine a non essere contraddetti e sono persuasi di essere gli unici detentori della verità umana, per non dire di quella cosmica... Ho degli amici del genere..."
Qui si intravede un risentimento, che rasenta il dispregio, sia nei confronti della categoria dei filosofi universitari oltre a quelli che, per di più, scrivono romanzi. "...vi assicuro che non ho mai cercato di discutere con loro perché i loro argomenti sono quelli ai quali non si può rispondere senza irritarsi..."
Insomma Simenon rivendica che siano i romanzieri a scrivere i romanzi ed è molto seccato che la moda di publicare romanzi abbia preso piede tra i professori non solo dell'università, ma anche tra quelli di liceo e che i loro titoli abbiano invaso il mercato.
Con il senno di poi, e guardando anche al nostro paese oggi, dobbiamo constatare che non solo filosofi o professori, ma anche medici, magistrati, uomini di spettacolo, sportivi abbiano scoperto una vena letteraria, molto spesso con risultati mediocri. E con il ragionevole dubbio che siano operazioni più funzionali al profitto dell'industria culturale, che non insostituibili contributi alla letteratura tout court. E Simenon lancia questi strali, quando ormai ha già smesso di scrivere. Quando la sua poderosa opera è completa e lui si è chiamato fuori dalla letteratura e si sente a maggior ragione autorizzato a rivendicare, dal suo punto di vista, la produzione dei romanzi ai "veri" romanzieri. Alzi la mano chi è d'accordo.
E' chiaro che non si trattava più dei suoi fascinosi romanzi o delle accattivanti indagini del commissario Maigret. Come precisava lo stesso autore "... se ho scritto circa duecento romanzi e se una volta ritiratomi ho continuato a dettare con altrettanto accanimento è, anche secondo me, per bisogno. Forse per cacciare i miei fantasmi, come Fellini, ben più giovane di me, continua a fare...".
Insomma erano le sue considerazioni, anche frammentarie, dei ricordi del passato, alcune osservazioni dei fenomeni del presente, a volte critiche e forse anche l'occasione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe.
Ad esempio sappiamo bene con quanta umiltà, perseveranza e programmazione Siemenon abbia perseguito prima un periodo di apprendistato con la letteratura popolare, poi sia approdato a alla semi-letteratura, come lui stesso definiva i Maigret, e poi finalmente, dopo tale trafila, iniziò a scrivere romanzi e a definirsi romanziere. Per dedicarsi completamente ai romanzi lasciò anche la sua attività giornalistica e qualsiasi altrà occupazione connessa. Questo tanto per rendere l'idea di come prendesse con serietà questa sua vocazione.
In Au delà de ma porte-fenetre (Dictées -1973) si interroga sul fatto perché gli intellettuali, e nello specifico i professori, si dedicassero a tempo perso, a scrivere dei romanzi.
"...negli Stati Uniti non è raro vedere un professore di filosofia scrivere, per proprio divertimento e probabilmente per migliorare le proprie entrate, dei romanzi polizieschi. Sono i peggiori, come succede per i romanzi dei filosofi francesi...."
Trapela da queste parole la riprovazione per chi, invece di investire tutte le prorpie energie (come faceva lui) nel proprio mestiere, anche se solo per diletto, le indirizzava verso qualcosa che a lui era costato anni di preparazione (e circa un chilo per ogni giorno di scrittura). E quindi continua "...Hanno l'abitudine a non essere contraddetti e sono persuasi di essere gli unici detentori della verità umana, per non dire di quella cosmica... Ho degli amici del genere..."
Qui si intravede un risentimento, che rasenta il dispregio, sia nei confronti della categoria dei filosofi universitari oltre a quelli che, per di più, scrivono romanzi. "...vi assicuro che non ho mai cercato di discutere con loro perché i loro argomenti sono quelli ai quali non si può rispondere senza irritarsi..."
Insomma Simenon rivendica che siano i romanzieri a scrivere i romanzi ed è molto seccato che la moda di publicare romanzi abbia preso piede tra i professori non solo dell'università, ma anche tra quelli di liceo e che i loro titoli abbiano invaso il mercato.
Con il senno di poi, e guardando anche al nostro paese oggi, dobbiamo constatare che non solo filosofi o professori, ma anche medici, magistrati, uomini di spettacolo, sportivi abbiano scoperto una vena letteraria, molto spesso con risultati mediocri. E con il ragionevole dubbio che siano operazioni più funzionali al profitto dell'industria culturale, che non insostituibili contributi alla letteratura tout court. E Simenon lancia questi strali, quando ormai ha già smesso di scrivere. Quando la sua poderosa opera è completa e lui si è chiamato fuori dalla letteratura e si sente a maggior ragione autorizzato a rivendicare, dal suo punto di vista, la produzione dei romanzi ai "veri" romanzieri. Alzi la mano chi è d'accordo.
sabato 5 novembre 2011
SIMENON. ROMANZI SCRITTI CON LA MACCHINA... FOTOGRAFICA
L'Occhio di Simenon. La mano di Simenon. Uno per osservare e l'altra per scrivere. Ma proprio L'Oeil de Simenon è il titolo di una mostra fotografica di immagini scattate dall'autore che si tenne in occasione del centenario della sua nascita alla Galleria Jeu de Paume a Parigi 13 gennaio-7 marzo 2004 . La mostra diventò un libro che aveva lo stesso titolo (Editore Omnibus, chi volesse acquistarlo può approfittare della vendita on line ). Curato da un esperto simenoniano, come Michel Carly, il libro propone trecento fotografie e ci mostra l'altro lato di un uomo abituato a raccontare le proprie storie con la penna o la macchina per scrivere, magari in état de roman. Qui invece imbraccia la macchina fotografica e, al contrario, deve cogliere rapidamente l'attimo, quell'attimo fuggente che appunto racconta in un immagine ferma tutto un passato o lascia intravedere un futuro che entrambe travalicano il personaggo, la scena o il paesaggio ritratto nella sua fissità.
Ad esempio osservate la foto intera qui a destra, di cui una parte scelta per la copertina del libro. E' stata scattata a Tunisi nel 1934 e ognuno può capire il mestiere della donna che nasconde il suo profilo, l'uomo che la guarda con occhio voglioso e l'espressione vogliosa. Sarà un bordello locale? Si sta per consumare un frettoloso rapporto mercenario? Una routine? Una donna che viene da un passato di povertà e miseria? L'aspetta un futuro di degrado e giorni sempre uguali? E l'uomo un piccolo mercante? Aspetta il suo turno per poi tornare alla sua numerosa famiglia? Nei vari viaggi dall'Africa centrale, alle isole caraibiche, dalle isole del Pacifico, all'Australia, Simenon si rivela efficace a cogliere ancora una volta più veloce della sua pur veloce scrittura. Foto che testimoniano personaggi, più che paesaggi, come se lo scrittore intravedesse appunto in ognuno di quei ritratti una storia, magari da trasformare poi in un romanzo.
venerdì 4 novembre 2011
SIMENON. UNA FONDAZIONE DA UNA DONAZIONE/2
Il Castello di Colonster sede del Fonds Simenon |
Insomma tra l'entusiasmo del professor Piron e la piena collaborazione di Simenon è stato possibile mettere su un centro di documentazione sullo scrittore a dir poco singolare. La quantità di documeenti, manoscritti, fotografie, edizioni introvabili, e oggetti permettono a studiosi e specialisti di entrare nell'universo simenoniano per ricercare, approfondire, studiare, avendo a disposizione una quantità di materiale di qualità, organizzato e sistematizzato. Il Centro Studi è, come già detto, insediato presso Università di Liegi a Place Cockerill, èd è presieduto dalla professoressa Danielle Bajomee e diretto da Benoit Denis, invece il Fonds Simenon, coordinato da Laurent Demoulin, si trova nel castello di Colonster nel campus universitario di Sart Tilman (sempre nei pressi di Liegi) che mette a disposizione la sua poderosa collezione non solo ai professionisti, ma anche ai gruppi e alle scolaresche che ne facciano specifica richiesta.
Le attività sono molteplici come ad esempio la realizzazione di studi sull'opera simenoniana, l'organizzazione di incontri internazionali per dibattere temi inerenti all'opera, alla vita e alla critica letteraria di e su Simeno. Inoltre pubblica anche una rivista, Traces, che ogni anno fa il punto sulla pubblicistica sul mondo simenoniano con articoli, studi, commenti, dibattiti cui collaborano specialisti e studiosi simenoniani da tutto il mondo. Inoltre, ricordiamo (come riportiamo sempre nella colonna qui al lato) è on line anche un sito dove è possibile trovare numerose ed interessanti informazioni Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège
Simenon forse aveva pensato alla sua memoria postuma? O invece é stato un modo di mettersi a nudo, come aveva già fatto diverse volte nella sua vita, vedi l'intervista di Médicine et Hygiène oppure le sue opere autobiografiche o qualche "confessione" televisiva, come quella famosa in Apostrophe di Bernand Pivot nel novembre del 1981 (vedi il post del 28 luglio Simenon e le sue "Memoires" chez Bernard Pivot)? O ancora aveva timore che tutte le sue cose fossero poi finite disperse, mentre così tutte raccolte e conservate avrebbero avuto ben altro valore?
Quale che sia stato l'intento, il risultato è stato ottimale e cosituisce una gran fortuna non solo per gli studiosi di letteratura, ma anche per tutti gli appassionati di Simenon.
giovedì 3 novembre 2011
SIMENON. UNA FONDAZIONE DA UNA DONAZIONE/1
E' il 3 novembre 1976. All'università di Liegi si respira un'aria speciale. Quella mattina s'inaugura il Fonds Georges Simenon. E' un progetto nato sotto gli auspici di Maurice Piron, professore di filosofia e di letteratura presso la suddetta univerità.
"... i miei manoscritti e tutta la documentazione che io posseggo - spiega Simenon decidendo la donazione del materiale - ho pensato a Liegi, la mia città natale, con la quale mantengo diversi legami anche se ne vivo lontano. Così hovoluto donare all'Università di Liegi tutti i miei manoscritti, tutte le edizioni delle mie opere, comprese le traduzioni straniere e un certo numero di opere introvabili di cui io stesso non avevo che un solo esemplare..."
Insomma uno scrittore che decide di separarsi da tutto quello che ha realizzato nella sua vita, che poi per Simenon è stata una vera propria ragione di vita, parrebbe alquanto strano. Ma in quel momento per lui non è un gran sacrificio. Ormai a 74 anni si considera in pensione, da ormai cinque anni non scrive più un romanzo, nemmeno un Maigret. Vive una sorta di distacco dalla scrittura e dalla letteratura. Ma anche il suo stile di vita è cambiato. Niente più sfarzose ville o castelli, basta garage con una decina di vetture, via dalle pareti quadri dei pittori più famosi. Ormai lui con Teresa, vive in una piccola casa a Losanna con un modesto giardino e il tempo scorre scandito dalle semplici occupazioni quotidiane, i pasti, la passeggiata, il riposo pomeridiano. E' un Simenon molto lontanto da quello che era stato un tempo, minato nel fisico e stanco di tutte quelle stressanti immedesimazioni nei suoi personaggi, di quei centinaia e centinaia di defatiganti état de roman, che lo hanno logorato forse anche psichicamente. Ora è preoccupato della figlia, della sua instabilità mentale (di lì a sei mesi Marie-Jo si sarebbe infatti suicidata), è preso dal rapporto con Teresa che per lui è una compagna, una madre, una badante, una fonte di consolazione e di sicurezza. Già perché l'ultimo Simenon è un uomo incerto, che ha bisogno di un appoggio sicuro. E Teresa è un punto fermo e una persona che gli si dedica completamente.
Queste le sue condizione all'epoca, tanto che il giorno dell'inaugurazione del Fonds Georges Simenon, lo scrittore non può essere presente perchè ricoverato per un'operazione alla prostata. Ma la cerimonia ha luogo lo stesso e .... continua....
mercoledì 2 novembre 2011
SIMENON. LA SERENITA' DEL SILENZIO
Oggi vi proponiamo un video, in francese, che è pubblicato sul sito dell' I.N.A. (Institut National de l'Audiovisuel), nella sezione cultura, che documenta l'intervista dal giornalista Claude Mosse. Qui di seguito riportiamo la traduzione del testo che accompagna il filmato prodotto da l'Office national de radiodiffusion télévision française
."Claude Mosse andato a visitare Georges Simenon, a Losanna, nel suo appartamento in una grande "torre" residenziale, in cui vive da quando ha lasciato la grande villa di Epalinges. Al momento dell'intervista Simenon è oltre un anno che ha vissuto da recluso, non ricendo più nessuno. - Nell'intervista lo scrittore spiega perché ha smesso di scrivere romanzi, di scrivere in generale e soprattutto di creare personaggi. E' ormai solo con un registratore che detta le sue riflessioni personali visto che comunque ha ancora bisogno di esprimersi.
Afferma di aver dimenticato Maigret e di non pensare più alla letteratura e racconta invece delle sue attività quotidiane "in pensione". Si è
liberato dall'ansia che stava causando dei gravi problemi... Ha poi espresso la sua paura del declino fisico e mentale dovuto all'invecchiamento e alle malattie. Simenon si sente felice nella sua solitudine. Lo scrittore dice quello che pensa decorazioni e onorificenze e fà un breve accenno a Francois Mauriac. Conferma come non sia interessato agli adattamenti televisivi e cinematografici delle sue opere e si rifiuta anche di commentare gli interpreti di Maigret. Per quanto riguarda il denaro, ha in programma di porre fine completamente i suoi giorni con solo una semplice pensione di veccchiaia. No dimentica le sue donne sulle donne affermando di non avere mantenuto i rapporti con le donne che amava. Ricorda la sua infanzia a Liegi. Su richiesta di Claude Mosse, che gli chiede quale titolo avrebbe preferito per questa intervista e lui risponde "Serenità Simenon" piuttosto che "Silenzio".
."Claude Mosse andato a visitare Georges Simenon, a Losanna, nel suo appartamento in una grande "torre" residenziale, in cui vive da quando ha lasciato la grande villa di Epalinges. Al momento dell'intervista Simenon è oltre un anno che ha vissuto da recluso, non ricendo più nessuno. - Nell'intervista lo scrittore spiega perché ha smesso di scrivere romanzi, di scrivere in generale e soprattutto di creare personaggi. E' ormai solo con un registratore che detta le sue riflessioni personali visto che comunque ha ancora bisogno di esprimersi.
Afferma di aver dimenticato Maigret e di non pensare più alla letteratura e racconta invece delle sue attività quotidiane "in pensione". Si è
liberato dall'ansia che stava causando dei gravi problemi... Ha poi espresso la sua paura del declino fisico e mentale dovuto all'invecchiamento e alle malattie. Simenon si sente felice nella sua solitudine. Lo scrittore dice quello che pensa decorazioni e onorificenze e fà un breve accenno a Francois Mauriac. Conferma come non sia interessato agli adattamenti televisivi e cinematografici delle sue opere e si rifiuta anche di commentare gli interpreti di Maigret. Per quanto riguarda il denaro, ha in programma di porre fine completamente i suoi giorni con solo una semplice pensione di veccchiaia. No dimentica le sue donne sulle donne affermando di non avere mantenuto i rapporti con le donne che amava. Ricorda la sua infanzia a Liegi. Su richiesta di Claude Mosse, che gli chiede quale titolo avrebbe preferito per questa intervista e lui risponde "Serenità Simenon" piuttosto che "Silenzio".
martedì 1 novembre 2011
SIMENON. IL PASSAGGIO DELLA... FRONTIERA
La prima edizione del romanzo di Simenon nel 1958 |
Ma nella sua vita Simenon ha mai passato questa linea? E se sì, quando e quante volte?
Il discorso non è semplice. Ad esempio se diamo a questo "passare la linea" un'accezione più ampia e fisica possiamo dire che è successo molte volte. Ad esempio quando lo scrittore valicava la frontiera tra un paese e l'altro e cambiava anche modo di vivere, instaurava nuovi tipi di rapporti umani e veniva condizionato da una cultura e da mentalità diverse.
Ci sono stati dei passaggi della linea fondamentali nella vita di Simenon, ad esempio quando ancora sedicenne passò da commesso di un libreria a redattore alla Gazette de Liége, così come quando lasciò il Belgio (primo passaggio fisico di una frontiera) per la Francia, o meglio Parigi, dove si concretò il suo sogno di diventare "romanziere". E poi la fuga verso gli Stati Uniti (altro passaggio di una frontiera) dove trascorse un decennio fondamentale per la trasformazione del suo status di romanziere.
Ma anche prima c'erano stati sul piano letterario un paio di passaggi di linea. Prima il lancio dei Maigret, quando dalla letteratura popolare dei racconti e dei romanzi brevi su ordinazione, passò ad un personaggio e a delle storie pensate secondo la sua ispirazione, scritte con il suo stile, con la libertà di inventare personaggi, trame e conclusioni a suo piacimento. E qui era saltato a pié pari nel territorio della semi-letteratura. E poi, tanto per prendere un evento di riferimento, un altro passaggio imporantissimo della linea, quando, entrato nella prestigiosa scuderia Gallimard, iniziò a scrivere quelli che chiamava i romans-durs... cioè letteratura con la "L" maiuscola.
Ma nei suoi romanzi il passaggio della linea raramente è un costante miglioramento delle proprie condizioni. Il destino è spesso avverso e troppi sono i personaggi per i quali varcare questa demarcazione significa sprofondare nella schiera dei disperati e dei senza futuro. Nella sua vita invece il salto era sempre in dimensioni migliori di quelle precedenti. Ma va fatta qualche precisazione. Simenon era ossessionato dalla possibilità che per un qualsiasi motivo la sua fortuna potesse terminare e il suo destino invertire la rotta. Significativo quello che in merito scrisse nel romanzo Les Fils (1957) "... Viene il momento in cui ognuno si trova davanti alla necessità di decidere il proprio destino, di fare la scelta decisiva dalla quale non potrà più tornare indietro...".
Ma in diverse interviste e scritti Simenon aveva specificato che questa scelta poteva essere anche inconsapevole, o addiritura il fattore scatenante poteva essere un avvenimento davvero insignificante, o un fatto cui non si attribuiva la minima importanza. Questo a confermare, come aveva fatto più volte, la sua convinzione che la forza del destino poteva essere più forte della volontà dell'individuo. E questa sorta di fissazione non lo abbandonò anche quando, ormai molto famoso e davvero ricco. Anche a quel punto temeva la possibilità di un rovesciamento della sua esistenza, anche se era ragionevolmente assai improbabile.
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