SIMENON SIMENON "REPORT" - SIMENON: EROTOMANE, EGOISTA E AVIDO. EPPURE ERA UN GENIO





Il Fatto Quotidiano - 10/11/2019 -  Paolo Isetta -  A settembre hanno fatto trent’anni dalla morte di Georges Simenon. Era un uomo egoista, avido, erotomane, per certi versi sordido. Il suo primo rapporto sessuale lo ebbe in un cortile, a Liegi, all’impiedi: dodici anni lui, quindici la ragazza. Non mutò mai stile. Le donne le usava e le buttava via. Ebbe ragione solo quando ruppe con Josephine Baker: “Non voglio diventare il signor Baker!” Era un genio della letteratura.
Si dura fatica ad ammetterlo, se per noi il modello del genio è Proust, o Gadda, o Landolfi, o Borges, o Céline. Proprio se pensiamo a quest’ultimo, tuttavia, dietro la magia sintattica e lessicale, la visione netta e spietata della realtà li unisce. Simenon aborre dal virtuosismo letterario, ma Voyage au bout de la nuit e Mort à crédit sono, li abbia letti o meno, quanto di più prossimo a lui abbia raggiunto la letteratura del Novecento. In Céline v’è la profondissima pietà verso le vittime, verso i poveri. Simenon è spietato. Almeno così sembra. Ma raccontare la realtà più miserabile, occuparsi degli ultimi – vittime o colpevoli non importa – non è una forma profondissima di pietà, pur se involontaria?

E veniamo al commissario Maigret, nato alla letteratura nel 1930. Gli ha portato guadagni immensi, ma, naturalmente, il disprezzo dei letterati e dei colti. Letteratura facile, letteratura d’appendice. Ve l’immaginate Proust, se fosse vissuto dieci anni di più, che cosa avrebbe detto dei romanzi di Maigret?
Come quasi tutti, ho fatto conoscenza con Simenon per il tramite di Maigret. Posseggo ogni romanzo che gli è dedicato, oltre molto altro Simenon. Li rileggo spesso. Questi romanzucci che si vendevano in edicola senza nemmeno passare in libreria sono pur essi dei capolavori. Le trame sono sovente ripetitive: il Quai des Orfevrès, la squadra dei poliziotti collaboratori del Commissario, le birrerie circonvicine, la moglie. È un tratto d’arte riuscire a non stancarti mai ripetendo tutto ciò, e gl’interrogatorî, gli appostamenti, i pedinamenti. I superiori invidiosi e a volte persecutori. Un essere totalmente privo di umanità come Simenon inventa un uomo carico di umanità come Maigret. Il Commissario non riesce a odiare il criminale, l’assassino. La vita è fatta così: per un caso l’uno si trova dalla parte giusta, l’altro dalla parte sbagliata. Non riesce a odiare nemmeno i sordidi confidenti, gli eroinomani, i morfinomani che magari fanno la fila davanti al suo ufficio per dargli una “soffiata”.
Il genio di Simenon consiste in una rappresentazione perfetta della realtà: che non è fotografia, pur forse pretendendo di esserlo. Egli proveniva dal milieu della minima borghesia, e aveva passato la vita a osservarlo: insieme con quello della povertà più sventurata, e con quello della ricchezza. Nulla gli è alieno. Riesce a farti sentire l’odore di certe scale immonde, di certe portinerie nelle quali la portiera quasi sempre cucina la zuppa di cavolfiore. (Le portiere di Maigret: un capitolo a sé!). L’odore dei letti sfatti di certe camere “a ore”, l’alito degli avvinazzati con le manette, l’odore della paura della prostituta arrestata perché sa qualcosa che non dovrebbe sapere. E così via. Non è un caso che uno dei genî del cinema, Jean Renoir, s’impadronì immediatamente di Maigret, dando il suo volto a Jean Gabin. Infine la moglie: quieta e non sciocca casalinga. Il merito principale della quale è di non interrogare il marito sulle inchieste.
Molti dei romanzi indipendenti dal commissario, Il testamento Donadieu, Ceux de la soif, La neige etait sale, Lettre à mon Juge, sono capolavori della letteratura. La conoscenza che Simenon ha del- l’uomo si distende su più ampio spazio. Ed è, come nei romanzi “piccoli”, d’un invincibile pessimismo.
Il caso Simenon è singolare anche sotto un altro profilo. Egli era costretto a creare da qualcosa di più forte di lui. Entrava in una sorta di trance, e dalle quattro del mattino era alla macchina da scrivere almeno per otto ore. Non lasciava il romanzo, grande o piccolo che fosse, nemmeno un giorno. In tutto, ne impiegava undici. Questa sorta di ebrietà dionisiaca combinata con una vita da borghese, a volte piccolo, a volte massimo, è uno dei più grandi misteri della letteratura: tenuto conto della qualità del prodotto. È come se fosse in lui un daímon che l’obbligava a inventare e narrare. Scriveva persino durante i giri in canoa che fece per conoscere l’interno della Francia; e poi negli Stati Uniti, in Canada, a Papeete… Il paragone più ovvio è quello con Balzac. Ed è ovvio solo in apparenza: Honoré era posseduto dallo stesso daímon, e ha una capacità di raccontare gl’interni miserabili, piccolo borghesi, aristocratici, che certo Simenon ha preso da lui. Ma la cosa più importante era il fatto che ambedue sapevano aprire la porta all’inconscio e lasciarlo libero.
Né Céline né Borges né Simenon hanno vinto il Premio Nobel. Paragonateli ai vincitori.

Il testo integrale è stato ripreso dal sito cinquantamila

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