mercoledì 19 aprile 2017

SIMENON SIMENON. IL MITO DELL'INCONTRO CON D.

Le tracce di quest'incontro in alcuni romanzi 

SIMENON SIMENON. LE MYTHE DE LA RENCONTRE AVEC D. 
Les traces de cette rencontre dans plusieurs romans  
SIMENON SIMENON. THE MYTH OF THE MEETING WITH D. 
Traces of this encounter in several novels 

Tutto ha inizio in un bar, una caffetteria, più precisamente, che pare uscita da un quadro di Hopper, una gabbia di vetro illuminata da luci violente, un paio di marinai ubriachi e lei, appollaiata su uno degli alti sgabelli allineati davanti al bancone. Lei, che si accende una sigaretta, “lentamente, con gesti studiati, dopo avervi impresso la curva rossa delle sue labbra”. Lei, che fuma allo stesso modo delle americane ritratte sulle copertine delle riviste o immortalate nei film, con gli stessi gesti artefatti e stereotipati, lo stesso modo di accavallare le gambe.
Come esiste un mito della nascita di Maigret, ben noto ai simenoniani, ambientato in una chiatta abbandonata nel porto di Delfzijl (“Fatto sta che dopo un’ora, un po’ assonnato, cominciavo a veder disegnarsi la massa possente e impassibile di un signore che, mi pareva, sarebbe stato un commissario accettabile”), forse non è del tutto improprio definire questa immagine il mito della nascita di D., dell’incontro con D. 
C’è già tutto in queste prime pagine di “Tre camere a Manhattan”, terminato nel gennaio del 1946, un paio di mesi dopo l’incontro con Denyse Ouimet: l’immediata percezione della sua necessità di mentire, e di quella di sedurre tutti quelli che incontra, anche i baristi e i taxisti, anche il pianista del piano-bar e perfino il “mendicante a cui allunga una moneta per strada”, quel bisogno che infastidisce il protagonista, che diventerà la sua ossessione sempre sul punto di trasformarsi in rabbia e violenza. C’è anche però un’attrazione che, almeno inizialmente, non pare legata al suo aspetto fisico (non la trova bella e tantomeno irresistibile), ma piuttosto all’intuizione di qualcosa che è oltre quella maschera, qualcosa che lo commuove e da subito gli rende impossibile separarsi da lei. C’è il suo inciampare a causa dei tacchi troppo alti che già allude ai troppi whisky. 
La stessa immagine tornerà, a distanza di meno di un anno (dicembre 1946) in “Lettera al mio giudice”, questa volta ambientata in un bar americano di Nantes: 
“Quegli sgabelli alti sui quali accavallava le gambe con tanta disinvoltura! E l’astuccio che tirava fuori dalla borsa, la sigaretta sporca di rossetto grasso, quella sigaretta che le era indispensabile come il cocktail di cui sorvegliava la preparazione, e poi i suoi occhi che scrutavano gli uomini uno dopo l’altro, mendicando uno sguardo di ammirazione…”. 
Torna il bisogno di mettersi in mostra ed il paragone con la copertina di un rotocalco, quel “sorriso da rotocalco” che il protagonista ben presto inizia ad odiare. Torna la difficoltà di camminare per via dei tacchi altissimi. Torna soprattutto l’immediata consapevolezza del non poter più fare a meno di lei e tornano, ben più numerosi ed espliciti, gli scoppi di violenza. Torna il disperato furore del primo amplesso. 
Difficile però immaginare due romanzi più diversi. Uno, “Tre camera a Manhattan”, aperto sul futuro ed in cui paiono riflettersi tutte le aspettative, di uomo e di scrittore, del Simenon appena trasferitosi nel Nuovo Mondo, i suoi timori certamente, ma anche le sue speranze, le sue rinnovate energie. In cui tutto in realtà deve ancora accadere dopo che è stata scritta la parola fine. L’altro, “Lettera al mio giudice”, in cui tutto è già accaduto prima dell’inizio, ed è accaduto nel peggiore dei modi, in cui quel sogno d’amore che si era tradotto in “Tre camere” in un eccesso di romanticismo quantomeno anomalo nell’opera di Simenon (e che può costituire il limite maggiore di tale romanzo)si consuma in tragedia. In tragedia e nella lucidità di analisi consentita unicamente a chi è passato dall’altra parte. 
Simenon, con le sensibili antenne del romanziere, ha avuto una precocissima premonizione dell’esito disastroso del rapporto con D.? 
Senza spingersi tanto in là, quel che pare innegabile è che da subito Simenon ha avuto piena consapevolezza dell’ambivalenza di tale rapporto, di come questa ambivalenza ne costituisse la radice e la fonte, pericolosa, del fascino, di come tale rapporto potesse risolversi unicamente o in una completa accettazione di D. (“Tre camere”) o in un dramma (“Lettera”). Ed in effetti il dramma avverrà, anche se in forma diversa, e la vittima sacrificale sarà la figlia suicida Marie-Jo. Un suicidio di cui i genitori si accuseranno reciprocamente e che segnerà il tracollo definitivo della loro tragica relazione. 
Ma, uscendo dalle suggestioni biografiche, ciò che conta è la forza dell’immagine, la sua capacità di dare vita a narrazioni estremamente diverse, opposte. Di dare vita, quando Simenon riesce a prendere maggiormente le distanze dall’urgenza della materia autobiografica (tramite l’ambientazione vandeana, prossima ma già alle spalle, ma anche attribuendo al protagonista non più la professione dell’attore, un famoso attore francese che ha lasciato la Francia per gli Stati Uniti, calco evidente di quanto accaduto a lui stesso, ma quella, a lui cara, del medico), di dare vita ad uno dei vertici della sua sterminata produzione, ennesima, altissima, variazione di un tema che tante volte abbiamo già incontrato nella sua opera. In quel “Clan dei Mahé” ad esempio, per citare un romanzo cronologicamente e qualitativamente molto vicino, il cui protagonista pare apparentarsi strettamente a quello della “Lettera”, già nella professione, ma anche in un dettaglio dell’immagine del padre, bevitore impenitente e possente, capace di portare in spalla un cavallo. Il tema dell’essere umano che all’improvviso si rende conto di avere fatto per anni ciò che gli altri hanno voluto da luidi avere “girato a vuoto” e non avere vissuto la propria vita, e neppure “una vera vita da uomo”, che scopre la possibilità di essere felice, “la forza irresistibile della vita”. Il tema dell’”uomo in fuga”, ma questa volta la fuga conduce al delitto (e, dostoevskianamente, alla scelta consapevole del castigo). 
A conferma delle potenzialità del “mito della nascita di D.” una lontana, debole eco dell’immagine da cui siamo partiti si può forse cogliere in “Betty”, del 1960, negli amanti raccattati nei bar dalla protagonista, nelle sue calze smagliate e nei troppi whisky, nella sua disperazione. Non c’è più posto però per le menzogne, se non per quelle che fino a quel giorno ha raccontato a se stessa, e soprattutto non c’è più posto per il bisogno di sedurre, perché, quando la incontriamo, Betty è una donna completamente alla deriva. Soprattutto è cambiato, rispetto alle opere citate, radicalmente, il punto di vista, che diviene quello del personaggio femminile, relegando quelli maschili a esili figure di contorno. Ancora un finale aperto, debole però, ed una vittima, in un romanzo che pare trovare il proprio meglio nella precisa descrizione iniziale dello stato di ubriachezza. 

Luca Bavassano 

martedì 18 aprile 2017

SIMENON SIMENON. UNE DOULOUREUSE LETTRE A SA MERE

Contexte de rédaction de "Lettre à ma mère", et son évocation à travers les "Dictées" 

SIMENON SIMENON. UNA DOLOROSA LETTERA A LA SUA MADRE 
Contesto di scrittura di "Lettera a mia madre", e la sua evocazione attraverso le "Dictées" 
SIMENON SIMENON. A PAINFUL LETTER TO HIS MOTHER  
Writing context of "Letter to MMother" and its evocation through the "Dictées" 

C'est l'histoire d'un petit garçon qui ne s'est pas senti aimé par sa mère… Toute sa vie, il a voulu lui prouver qu'il était capable… capable de gagner sa vie, capable de vivre de sa plume, capable de faire de grandes choses… Mais sa mère, jusqu'à la fin, n'a pas cru en lui… Un jour de décembre 1970, quand elle meurt, elle a plus de 90 ans. Le petit garçon a alors 67 ans, et, il ne le sait pas encore, il va bientôt cesser d'écrire des romans, comme s'il n'avait plus rien à prouver à sa mère, puisque celle-ci n'est plus là…  
Trois ans plus tard, le romancier, qui a cessé d'en être un, s'offre un magnétophone et commence à dicter, menus faits quotidiens, jugements à l'emporte-pièce, souvenirs égrenés. La matière va bientôt former un livre, un premier volume de Dictées, qui portera le titre de Un homme comme un autre. Mais, à peine les bobines envoyées à sa secrétaire, le voilà qui reprend déjà son magnétophone, et commence une nouvelle série de "bavardages", parce que, comme il le dit lui-même, c'est devenu un besoin pour lui.  
Quand il commence, le 17 septembre 1973, la nouvelle bobine de ce qui deviendra la deuxième dictée, Des traces de pas, il a déjà en tête une autre idée: il aimerait dicter une Lettre à ma mère. Comment ce désir lui est-il venu ? Les souvenirs qu'il a remués depuis six mois dans les mots qu'il dicte ? Ou le rappel de l'"échec" du 18 septembre 1972 (soit presque exactement une année auparavant…), date fatidique du matin où le déclic de l'écriture ne s'est pas produit ?  
On ne le sait pas, mais, ce qui est sûr, c'est que la dictée de cette lettre ne sera pas pour tout de suite, comme si Simenon devait encore laisser mûrir ses réflexions et ses sentiments vis-à-vis de sa mère… Quand, le 30 mars 1974, il clôt sa deuxième série de dictées, il dit: "j'ai hâte de dicter un volume dont je ne connais que le titre: Lettre à ma mère. Qu'est-ce que ce titre couvrira ? Je n'en sais rien. Depuis que je n'écris plus de romans, je me sens entièrement libre et je vais et viens dans le passé et le présent".  
Le surlendemain, 1er avril, il commence une nouvelle série au magnétophone, de ce qui sera par la suite le volume Les petits hommes, et il termine sa dictée du jour en citant ce que lui a dit Teresa: "Le langage ne set qu'à créer des malentendus. Il vaudrait mieux se regarder simplement les yeux dans les yeux." Des paroles prémonitoires ? Simenon reste alors plus de quinze jours sans parler dans le micro de son magnétophone, puis, le 18 avril, il se lance enfin, et dicte ces mots: "Ma chère maman, Voilà trois ans et demi que tu es morte […], et c'est seulement maintenant que, peut-être, je commence à te connaître.". C'est le début de sa lettre à sa mère, dans laquelle il va essayer de cerner la relation qui l'unit à elle, dans une douloureuse introspection, avec des mots terribles, mais qu'on sent criants de vérité, de la vérité telle que le petit Georges l'a vécue dans sa relation avec sa mère: "Nous ne nous sommes jamais aimés de ton vivant, tu le sais bien. Tous les deux, nous avons fait semblant. Aujourd'hui, je crois que chacun se faisait de l'autre une image inexacte." Et c'est cette image que Simenon va essayer de revoir, en revisitant le portrait qu'il avait fait elle dans Pedigree: "je t'ai décrite sous le prénom d'Elise. Je me rends compte maintenant que le portrait assez fouillé que j'ai fait de toi n'était pas exact. […] Aujourd'hui, c'est la vraie Henriette dont je voudrais trouver l'âme. […] c'est pour effacer les idées fausses que j'ai pu me faire sur toi, pour pénétrer la vérité de ton être et pour t'aimer, […] que je rassemble des bribes de souvenirs et que je réfléchis. […] Vois-tu, mère, tu es un des êtres les plus complexes que j'aie rencontrés."  
Quand il reprend son micro, le 19 juin, il vient de terminer la révision de ses deux premiers volumes de Dictées, et évoque aussi cette lettre à sa mère, dont la dictée, dit-il l'a "particulièrement épuisé. Depuis, j'attends de me sentir assez vaillant pour revoir Lettre à mère." Le simple fait d'en parler est semble-t-il suffisant, puisqu'il s'attelle à cette révision le jour même, puis reprend son micro pour dire: "Je suis bouleversé. Je n'aurais pas pu attendre plus longtemps avant de le revoir, et, en quelque sorte, de m'en purger l'esprit. […] Je crois que maintenant je vais me sentir allégé."  
Est-ce que d'avoir fait cette introspection va permettre à Simenon d'approcher d'une certaine sérénité ? Si les derniers mots dictés le 19 juin sont "Cette journée-ci a probablement été la journée la plus émouvante, pour ne pas dire déchirante", on peut se dire que ce "déchirement" a été nécessaire, pour parvenir, sinon à la sérénité, du moins à un certain détachement vis-à-vis de ce sujet. En novembre 1974, dans les premières pages de la dictée Vent du nord, vent du sud, Simenon évoque Lettre à ma mère, et les heures qu'il a passées auprès d'elle, dans sa chambre d'hôpital où elle se mourait: "c'est alors que j'ai cru la comprendre, me comprendre." Puis, quelques jours plus tard: "après avoir dicté ce tout petit livre, que j'ai porté en moi, à mon insu, pendant plusieurs années, j'ai été deux fois malade. Malade, sans doute, d'avoir découvert que je n'étais pas l'homme que j'avais cru être, malade de savoir aussi que ma mère n'avait jamais été qu'une femme, une très humble femme désaxée dès ses débuts dans la vie et qui aurait mérité davantage ma tendresse et ma pitié qu'une certaine indifférence ou une certaine rancune." 
Alors, les comptes sont-il réglés dorénavant entre le petit Georges et sa mère ? Si tant est que de tels comptes puissent jamais se régler, on pourra noter que Lettre à ma mère n'est plus qu'épisodiquement mentionné dans les dictées à venir, et Simenon n'en parle même pas dans ses Mémoires intimes… Il est vrai que ce dernier écrit peut être considéré comme une longue "lettre à sa fille"…  

Murielle Wenger