sabato 11 marzo 2017

SIMENON SIMENON. SIMENON DECOUVRE LA ROCHELLE... ET MAIGRET LE SOLEIL DE BERGERAC…

Comment le romancier utilise un paysage et le transpose dans un roman 

SIMENON SIMENON. SIMENON DISCOVERS LA ROCHELLE... AND MAIGRET THE BERGERAC SUNSHINE 
How the novelist uses a landscape and transposes it into a novel 
SIMENON SIMENON. SIMENON SCOPRE LA ROCHELLE... E MAIGRET IL SOLE DI BERGERAC 
Come il romanziere utilizza un paesaggio e lo traspone in un romanzo 



Mars 1932: Cela fait plus d'une année maintenant que Simenon s'est lancé sur la voie du succès avec sa collection Maigret chez Fayard. Il vient de publier le quatorzième volume de la série (Chez les Flamands), et la réussite est au rendez-vous, puisque déjà le cinéma s'est intéressé à Maigret: en effet, Simenon vient de passer l'hiver à Antibes, où il a travaillé, avec Jean Renoir, à l'adaptation de La nuit du carrefour, et avec Jean Tarride à celle de Le chien jaune. Simenon a vendu, en novembre 1931, son bateau l'Ostrogoth, et il cherche maintenant à "se fixer"… au moins pour un temps. Avec sa femme Régine, ils sont à la recherche d'une maison près de la mer, et ils louent le domaine de La Richardière, à Marsilly, non loin de la Rochelle. En attendant que quelques travaux soient terminés pour pouvoir en prendre possession, ils s'installent, en février, à La Rochelle, à l'hôtel de France et d'Angleterre. Pendant les presque deux mois que Simenon passe dans cette ville, il va apprendre à l'apprécier, elle restera un lieu très important pour lui ("une des villes du monde que j'ai le plus aimée" écrit-il dans ses Mémoires intimes) et on la retrouvera souvent dans son œuvre (d'après les recherches simenoniennes, c'est celle qui est le plus souvent évoquée, après Paris). Ce n'est pas pour rien qu'en 1937, après avoir parcouru la Hollande et toutes les côtes françaises à la recherche d'une "maison de grand-mère", Simenon finit par s'installer à Nieul-sur-Mer, à moins de 10 km de La Rochelle 
Ce que Simenon aime à La Rochelle en particulier, c'est, comme il le dit à Francis Lacassin dans un entretien en 1969, la "lumière extraordinaire" qui règne sur la ville, et que le romancier apprécie en peintre d'ambiances qu'il est. En attendant de la décrire dans plusieurs romans "durs" (la ville était apparue déjà dans quelques romans populaires), dont Le testament Donadieu et Le voyageur de la ToussaintSimenon, en ce mois de mars 1932, y écrit son seizième MaigretLe fou de Bergerac, dont il situe l'action en Dordogne. Curieusement, comme le rappelle John Simenon dans le reportage qu'il a consacré à la ville sur son site (http://simenon.com/la-rochelle-1932-1934/), le Bergerac du roman a bien des points communs avec La Rochelle, et tout d'abord le fait que Maigret est installé… à l'hôtel d'Angleterre, dont le concurrent, de l'autre côté de la place, est l'hôtel de France… Un autre fait intéressant, est que Simenon place l'enquête de son commissaire dans un "mois de mars épicé d'un avant-goût de printemps", alors que la rédaction du roman se passe également au mois de mars. Or, on sait que, dans une majorité des romans de la saga maigretienne, le temps de rédaction est "décalé" par rapport à celui de l'action, et il y a assez rarement concordance entre les deux, le romancier utilisant ses "souvenirs météorologiques" pour évoquer une atmosphère. Mais, avec ce roman Le fou de Bergerac, ce n'est pas le cas: est-ce donc La Rochelle, que Simenon avait sous les yeux, qu'indirectement il évoque lorsqu'il décrit la ville de Bergerac, avec " une rue large, toute baignée de lumière", la place "jaune de soleil", un soleil "si clair, si gai, qui semblait remplir les moindres recoins", " aussi vibrant que dans les contes de fées illustrés"… ? 

Murielle Wenger 

venerdì 10 marzo 2017

SIMENON SIMENON. UNO SCRITTORE IN CONTINUO MOVIMENTO

Perché l'esigenza di muoversi sempre, tra viaggi, cambi di paesi e di case?

SIMENON SIMENON. UN ECRIVAIN EN PERPERTUEL MOUVEMENT
Pourquoi cette exigence de se déplacer sans cesse, par les voyages,les changements de pays et de maisons?
SIMENON SIMENON. A WRITER IN PERPETUAL MOTION
Why the need to move about ceaselessly by traveling and changing countries and houses?




Belgio, Francia, Stati Uniti (per non citare il Canada) e Svizzera. Trentanove abitazioni (considerando solo quelle in cui visse per un certo periodo). Viaggi ai quattro angoli del globo, dal Congo alla Guinea, da Cuba ai paesi Scandinavi, da Tahiti a Panama...
Un uomo che dal 1922, anno in cui lascia Liegi per trasferirsi a Parigi, smette di spostarsi e di viaggiare solo quando, dopo cinquant'anni, si stabilisce a Losanna al 12 di rue Figuiers dove rimase stabile per un quindicina d'anni fino alla propria scomparsa.
Stiamo ovviamente parlando di Simenon e quelli accennati sono alcuni passaggi che servono d'esempio, per quei pochi che ancora non lo conoscessero, che servono ad illustrare questa particolare attitudine a "se déplacer" come dicono i francesi. 
Ma era solo un'attitudine o addirittura un atteggiamento compulsivo? 
Infatti stavolta ci domandiamo perché Simenon avesse l'esigenza di muoversi così frequentemente, come se dopo un po' di tempo avesse l'esigenza di liberarsi dai legami di un certo luogo per andare a scoprire mete nuove e sconosciute.
Cosa lo spingeva? 
Possiamo ridurre tutto ad un'irrequietezza caratteriale? O c'é dell'altro?
Domanda pericolosa, perché ci spinge a introdurci nei meandri del suo subconscio e nelle zone più oscure del suo animo, ovviamente muovendoci a tentoni, con la sola possibilità di formulare delle ipotesi e con un'altissima probabilità che da ipotesi si trasformino in domande senza risposta.
Insomma ci spostiamo su un crinale insidioso, ma la spinta e la curiosità a capire un personaggio così particolare come Simenon è talmente forte, che corriamo incoscientemente (e volentieri) anche il rischio di sconfinare fuoristrada.
La  nostra idea è che questi comportamenti non siano mai originati da un solo fattore. E quindi, come dicevamo sopra, certo Simenon era uno spirito irrequieto, ma dobbiamo anche considerare che alzava di continuo l'asticella della conoscenza. E per lui la conoscenza era tanto studiare come vivevano gli abitanti polinesiani, quanto "radiografare" i parigini, dai lavoratori de "Les Halles" alla folla che andava e veniva a la "Gare du Nord". Voleva conoscere (e non solo carnalmente) donne di tutti i ceti sociali e di ogni colore di pelle, come non vedeva l'ora, quando viaggiava per i canali, di spingersi con la sua imbarcazione sempre più su, fino ai Paesi Bassi, fino al Mar del Nord.
Curiosità mista a conoscenza, ecco una combinazione..."esplosiva" che concorreva a generare la spinta a spostarsi. 
Voleva una conferma alla ricerca del suo "uomo nudo"? Certo, Simenon cercava quei valori universali che, a tutte le latitudini e in culture molto diverse, si rivelassero comuni a tutti gli uomini. E quindi ecco la fame di conoscere ogni tipologia umana con le proprie abitudini, i propri condizionamenti sociali, le proprie ambizioni. Una fame che è un altro propellente a quel motore che non sapeva star spento e che acceso, a pieno regime, doveva divorare chilometri vedendo sfilare davanti a sé paesaggi e tipologie umane sempre diversi.
Certo alcuni spostamenti erano motivati, almeno in gran parte, da fattori concreti e ben identificabili. Quando lasciò Liegi per tentare la strada del "romanziere" a Parigi, era spinto da una volontà forte e chiara. Altrettanto forte era la voglia di fuggire dalla Francia nel '45, quando pendeva sulla sua testa la spada di Damocle dell'accusa di collaborazionismo.
Ma non sempre era così. Quante volte si spostò una volta giunto in America? Subito il Canada francese per una questione linguistica, prima a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson. poi a Saint-Andrews. E in Usa? Partiamo da Bradenton Beach, quindi Silver Springs, poi Tucson e ancora TumacacoriCarmel-by-the-sea, Reno, finalmente Shadow Rock Farm a Lakeville dove si fermò circa cinque anni.
Continente nuovo, gente nuova, paesaggi sconosciuti, grandi differenze tra nord e sud... La suddetta "fame" di Simenon era stimolata di continuo? Si e no. Via via che passano gli anni, questa sorta di moto perpetuo diventa una sorta di condizionamento comportamentale,  se non addirittura una coazione a ripetersi.
E  gli anni di quiete? Come i cinque anni passati a Shadow Rock Farm o la decina d'anni nella regione della Vandea (anche se qui si era spostato sia pur di poco in varie località: Marsilly, Nieul-sur-mer, Vervent, Fontenay-le-Comte, Saint-Mesmine-le-Vieux)? Qui forse dobbiamo scendere con i piedi per terra e considerare quanto contassero anche le esigenze di chi viveva con Simenon, mogli, figli, personale vario al seguito.
Ad esempio Tigy, che aveva lasciato Liegi per sposare Simenon e andare a vivere a Parigi, lo segui in Vandea, poi di passaggio in Canada, quindi negli Usa (dove nel '50 divorziò dallo scrittore) e infine nel '55, sempre al suo seguito, ritornò in Europa. Credo che non tutti i componenti di questa famiglia allargata avessero la stessa propensione a "se déplacer" del Georges marito, padre e amante.
Qualche compromesso lo dovette fare quindi anche Simenon? Gli toccò stringere i denti e fermarsi in un luogo per un periodo per lui troppo lungo? Chissà, forse anche lo scrittore aveva ogni tanto bisogno di fermarsi. Anche perché da un certo punto di vista la vita di Simenon era divisa in due: i periodi in cui incamerava storie, personaggi, luoghi, situazioni (in realtà era lui stesso a dichiarare che in mezzo alla folla era sempre in osservazione e sempre in ascolto) e poi i periodi in cui ritirava fuori quello che gli serviva per scrivere i suoi romanzi, i suoi Maigret, i suoi libri autobiografici. Certo lui scriveva sempre, anche nei viaggi più lunghi e in ogni condizione, ma certo un periodo di pausa non poteva non favorire un po' di più la concentrazione sulla scrittura. 
Possiamo dire che questo continuo movimento era connaturato al romanziere, ma che faceva parte del suo modo di essere anche in altri ambiti. La velocità della scrittura per essere libero di cadere di nuovo in ètat de roman. Scrivere un Maigret per poi concedersi ad un roman dur, per poi tornare ad un Maigret e viceversa. Fumare un pipa nell'attesa di accenderne un'altra, soprattutto quando scriveva. Passare da una donna all'altra anche in incontri fugaci, ma senza mai avere un relazione extra-coniugale fissa (eccezion fatta per Josephine Baker, anche se in questo caso  le cose non erano proprio così). 
Non stupisce quindi dopo tutto questo surmenage che nel '72, Simenon deponesse le armi, cioè la penna, ad un'età, 69 anni, alla quale altri scrittori hanno avuto ancora davanti a sé anni e anni di produzione letteraria. Il ritmo di lavoro e l'entrare e uscire dai suoi personaggi, era un'altra forma di "dèplacement", era anche nella scrittura un modo di non star mai fermo: da un romanzo ad un racconto, da un'articolo ad un testo autobiografico. Sarà questa irrequietezza che ha originato un'opera così imponente e di tale qualità? (m.t.)

giovedì 9 marzo 2017

SIMENON SIMENON. “THE CLOCKMAKER”/1

On an important theme in this Simenon "American Novel" 

SIMENON SIMENON. “L’HORLOGER D’EVERTON”/1  
Sur un thème important dans ce roman américain de Simenon 
SIMENON SIMENON. L'OROLOGIAIO DI EVERTON /1
Un tema importante in questo romanzo di Simenon

Communication and the lack thereof play prominent roles in this novel. Beyond the focus on spoken expression, numerous communication devices, auditory and visual, impact the protagonist throughout. For the past 15½ years of his life, Dave Galloway has devoted himself exclusively to supporting his only son. In this life as a single parent and a solo repairman, there has been little opportunity to communicate and seemingly little need for it.
Dave works in a storefront and lives in an apartment just overhead, but symbolically there is “no communication existing between them.” Dave confines his social life in this rural New York village to Saturday night backgammon with a friend, his only friend, but “they don’t go to great lengths” to talk to each other. Although the father and son did have “face to face exchanges,” Ben has “always avoided opening up” and Dave has never talked to anyone” about personal affairs.
When Dave discovers that his teenage son has packed his bag and left town, he is “tempted to stretch out on his belly on his bed and talk to himself, to talk to Ben, head in his pillow,” yet he ends up wondering, “But what would be the point?” The departure is a repeat of the way Dave’s wife left him (with a six-month old baby) “without saying anything.” Divorce papers were their only subsequent communication. As Dave learns his 16-year-old has run off with 15-year-old Lillian, shot a motorist to death, stolen a car, pilfered some money, and triggered a multi-state manhunt, he “wants to scream […] as if distance didn’t exist: Ben!” In a fruitless effort to communicate, Dave writes and tapes appeals for Ben’s surrender. “I don’t blame you. I will always be with you, no matter what happens.” Only impersonal communication from newsprint, loudspeakers, gossip, and police reports results.  
Even after the inevitable arrest, Dave doesn’t get to talk to his son. In fact, Ben refuses to see his father. “I have nothing to say to him.” What’s more, their lawyer insists that Dave “above all, avoid talking” to anyone. When father and son do eventually see one another, they still do not talk. Separated on the plane taking then back, they cannot talk. Separated in the courtroom during the trail, they cannot talk. When Dave achieves a transformation of understanding, he starts trying to transmit a calm, serene smile of reassurance to his son, but Ben continues to avoid looking at his father. Even as Ben begins to “toss curious glances his way,” Dave worries that it may be too late to communicate “the message.” Dave promises, if he ever gets the chance, to openly and directly explain what he has just discovered after all these years: that father and son, “they were one and the same.” 
Headed to prison for life, Ben searches his father’s face, but is he receiving Dave’s transmissions? Their first prison visit was the “most barren one,” so perhaps the communication barrier will slowly be broken down. And Lillian’s pregnancy offers the chance for a new and better talkative cycle since the novel ends with Dave “speaking softly” to his son’s picture “as he would soon speak to his grandson.” Thus, despite its roman dur nature, The Clockmaker does communicate some rays of hope. 

David P Simmons

mercoledì 8 marzo 2017

SIMENON SIMENON. IL "METODO" DI MAIGRET, IL METODO DEL "TORPORE"

Quando Maigret pratica la libera associazione delle idee e delle immagini per trovare la soluzione dell'enigma

SIMENON SIMENON. LA "METHODE" DE MAIGRET, LA METHODE DE LA "TORPEUR"
Quand Maigret pratique la libre association des idées et des images pour trouver la solution de l'énigme 
SIMENON SIMENON. MAIGRET'S "METHOD", THE METHOD OF "TORPOR"
When Maigret practices the free association of ideas and images to find the solution of the enigma


Tutti i lettori di Maigret ben sanno come il Commissario sbotti ogniqualvolta qualcuno cita il suo famoso “metodo”, e sicuramente ha ragione. Maigret non ha un metodo quale viene comunemente inteso, non sviluppa, ad esempio, una rigorosa concatenazione di ragionamenti a partire da dettagli rivelatori. Non segue, per dirla con Peirce e Ginzburg, quel “paradigma indiziario” comune ai classici della narrativa poliziesca.  Perché è verosimilmente questo il senso della sua negazione di seguire un "metodo", il segno della consapevolezza di Simenon di avere dato vita ad un personaggio molto diverso dai suoi illustri predecessori, molto diverso anche dai tentativi simenoniani precedenti e contemporanei alla "Vera nascita di Maigret". E’ invece proprio l’assenza di un metodo ciò che consente a Maigret di farsi “impregnare” dagli ambienti sempre diversi in cui si svolgono le sue inchieste (quanto ciò abbia a che fare con le caratteristiche migliori della scrittura di Simenon è cosa fin troppo evidente), di immedesimarsi nei più diversi personaggi, di "fiutare" l'anima delle persone e delle cose, come leggiamo ne “La casa del giudice”.
Altrettanto bene i lettori conoscono i “torpori” di Maigret, che tante volte lo fanno apparire un po’ ottuso a chi ha la ventura, o sventura, di incrociarlo. Non si tratta però unicamente di una strategia volta a sconcertare o trarre in inganno gli interlocutori, e credo ci sia un passo de “I sotterranei del Majestic” che lo illustra con precisione: “Si trovava in uno stato che conosceva bene. Una sorta di torpore che, pur non impedendogli la percezione di quanto gli accadeva intorno, lo rendeva indifferente, incapace di situare cose e persone nel tempo e nello spazio”.
E’ una condizione che gli studiosi della psiche umana, pur appartenenti a scuole molto diverse, e fornendone spiegazioni altrettanto diverse, hanno più volte descritto. E’ quello stato di libero vagare della mente, di libera associazione delle idee, o delle immagini, sottratte all’usuale contesto di relazioni (“incapace di situare cose e persone nel tempo e nello spazio”), che tanto spesso, rivelando connessioni inattese, conduce alla soluzione di un problema, alla soluzione creativa di un problema, più che ore ed ore di severa concentrazione. Almeno apparentemente, perché, in effetti, quelle lunghissime ore di studio, quel ripetuto girovagare di Maigret nelle medesime strade, corridoi e bistrot, sono la premessa necessaria affinché ciò accada. Necessaria ma non sufficiente, o quantomeno non sempre sufficiente.
D'altronde probabilmente molti di noi, senza bisogno di scomodare filosofi, psicologi ed epistemologi, hanno sperimentato come talvolta uscire per una passeggiata, per “distrarsi” ("lo rendeva indifferente"), sia più utile che continuare ad ostinarsi alla scrivania, ed in effetti anche a Maigret accade di rendersi conto che, “a forza di concentrarsi su un problema”, la sua mente inizia a “girare a vuoto” ("Cécile è morta"). E’ appunto un capitolo molto bello di questo romanzo, ambientato in un cinema, quello che può gettare ulteriore luce sui “torpori” di Maigret: “Pensava in maniera frammentaria, senza cercare di dare un senso a quei brandelli di idee”. E, soprattutto: “In quello stato di torpore fisico, la sua mente, come nei sogni, coglieva relazioni talora bizzarre, percorreva strade che la pura ragione non avrebbe mai battuto”.
Relazioni bizzarre, come nei sogni, irrazionali, che non devono essere forzate al senso comune. Difficile non pensare alla psicoanalisi, a Freud soprattutto, a quella teoria dell'inconscio che delle "libere associazioni" ha fatto un principio ermeneutico primario. Anche se probabilmente è meglio non vincolarsi a rapporti troppo stringenti, è certo che Simenon ha coltivato un interesse precoce, e di lunga durata, nei confronti di tali studi (si veda in proposito l'informato intervento di Maurizio Testa). Ma bisognerebbe riportare tutte le pagine di questo capitolo per comprendere appieno come ciò effettivamente funzioni, nell'intreccio fra i frammenti del "caso" di cui si sta occupando e l'ambiente della sala cinematografica, le sue luci e le sue ombre, i vicini scostumati e le reazioni della signora Maigret ai "torpori" del Commissario, quella precocissima riflessione sullo sconcerto provocato dal fuori sincrono fra sonoro e immagini. Il metodo di Maigret, il "metodo del torpore", ha a che vedere con tutto ciò, con il materiale offerto a Simenon dalle sue letture, letterarie o meno, e dalle sue esperienze, dalla sua esperienza di scrittore in primis, da quell'"état de romance" che gli permetteva, al pari di Maigret, di "vivere la vita di tutti i personaggi ripugnanti, meschini o commoventi del dramma su cui aveva l'incarico di fare luce".
Difficile dare una definizione migliore del metodo di Maigret, del suo comprendere e non giudicare. Difficile dare una definizione migliore della grandezza dello scrittore, e psicologo, Simenon. Per tale motivo, perché Simenon resta comunque il miglior interprete di se stesso, è opportuno lasciare in conclusione la parola a Maigret, quando, sempre in "Cécile è morta", si rivolge al criminologo americano appositamente giunto a Parigi per studiare il suo "metodo", ma, fra le righe, pare rivolgersi a noi, lettori più o meno attrezzati, interpreti, presunti esperti, castigando la nostra presunzione, richiamandoci al piacere della lettura, al "piacere del testo": "Dev'essere deluso, lei che sperava di studiare i miei metodi, come diceva stamattina... La faccio sguazzare nella pioggia... La porto in un banalissimo municipio, poi le faccio mangiare del pollo al vino... Cosa vuole che le spieghi?... Io le cose le sento...".



Luca Bavassano