Quando
Maigret pratica la libera associazione delle idee e delle immagini per trovare
la soluzione dell'enigma
SIMENON SIMENON. LA
"METHODE" DE MAIGRET, LA METHODE DE LA "TORPEUR"
Quand Maigret pratique la libre association des idées et
des images pour trouver la solution de l'énigme
SIMENON
SIMENON. MAIGRET'S "METHOD", THE METHOD OF "TORPOR"
When Maigret practices the free association of ideas
and images to find the solution of the enigma
Tutti i
lettori di Maigret ben sanno come il Commissario sbotti ogniqualvolta qualcuno
cita il suo famoso “metodo”, e sicuramente ha ragione. Maigret non ha un metodo
quale viene comunemente inteso, non sviluppa, ad esempio, una rigorosa
concatenazione di ragionamenti a partire da dettagli rivelatori. Non segue, per
dirla con Peirce e Ginzburg, quel “paradigma indiziario” comune ai classici
della narrativa poliziesca. Perché è
verosimilmente questo il senso della sua negazione di seguire un
"metodo", il segno della consapevolezza di Simenon di avere dato vita
ad un personaggio molto diverso dai suoi illustri predecessori, molto diverso
anche dai tentativi simenoniani precedenti e contemporanei alla "Vera
nascita di Maigret". E’ invece proprio l’assenza di un metodo ciò che consente
a Maigret di farsi “impregnare” dagli ambienti sempre diversi in cui si
svolgono le sue inchieste (quanto ciò abbia a che fare con le caratteristiche
migliori della scrittura di Simenon è cosa fin troppo evidente), di immedesimarsi
nei più diversi personaggi, di "fiutare" l'anima delle persone e
delle cose, come leggiamo ne “La casa del giudice”.
Altrettanto
bene i lettori conoscono i “torpori” di Maigret, che tante volte lo fanno
apparire un po’ ottuso a chi ha la ventura, o sventura, di incrociarlo. Non si
tratta però unicamente di una strategia volta a sconcertare o trarre in inganno
gli interlocutori, e credo ci sia un passo de “I sotterranei del Majestic” che
lo illustra con precisione: “Si trovava in uno stato che conosceva bene. Una
sorta di torpore che, pur non impedendogli la percezione di quanto gli accadeva
intorno, lo rendeva indifferente, incapace di situare cose e persone nel tempo
e nello spazio”.
E’ una
condizione che gli studiosi della psiche umana, pur appartenenti a scuole molto
diverse, e fornendone spiegazioni altrettanto diverse, hanno più volte
descritto. E’ quello stato di libero vagare della mente, di libera associazione
delle idee, o delle immagini, sottratte all’usuale contesto di relazioni
(“incapace di situare cose e persone nel tempo e nello spazio”), che tanto
spesso, rivelando connessioni inattese, conduce alla soluzione di un problema,
alla soluzione creativa di un problema, più che ore ed ore di severa
concentrazione. Almeno apparentemente, perché, in effetti, quelle lunghissime
ore di studio, quel ripetuto girovagare di Maigret nelle medesime strade,
corridoi e bistrot, sono la premessa necessaria affinché ciò accada. Necessaria
ma non sufficiente, o quantomeno non sempre sufficiente.
D'altronde
probabilmente molti di noi, senza bisogno di scomodare filosofi, psicologi ed
epistemologi, hanno sperimentato come talvolta uscire per una passeggiata, per
“distrarsi” ("lo rendeva indifferente"), sia più utile che continuare
ad ostinarsi alla scrivania, ed in effetti anche a Maigret accade di rendersi
conto che, “a forza di concentrarsi su un problema”, la sua mente inizia a “girare
a vuoto” ("Cécile è morta"). E’ appunto un capitolo molto bello di
questo romanzo, ambientato in un cinema, quello che può gettare ulteriore luce
sui “torpori” di Maigret: “Pensava in maniera frammentaria, senza cercare di
dare un senso a quei brandelli di idee”. E, soprattutto: “In quello stato di
torpore fisico, la sua mente, come nei sogni, coglieva relazioni talora
bizzarre, percorreva strade che la pura ragione non avrebbe mai battuto”.
Relazioni
bizzarre, come nei sogni, irrazionali, che non devono essere forzate al senso
comune. Difficile non pensare alla psicoanalisi, a Freud soprattutto, a quella
teoria dell'inconscio che delle "libere associazioni" ha fatto un
principio ermeneutico primario. Anche se probabilmente è meglio non vincolarsi
a rapporti troppo stringenti, è certo che Simenon ha coltivato un interesse
precoce, e di lunga durata, nei confronti di tali studi (si veda in proposito
l'informato intervento di Maurizio Testa). Ma bisognerebbe riportare tutte le
pagine di questo capitolo per comprendere appieno come ciò effettivamente funzioni,
nell'intreccio fra i frammenti del "caso" di cui si sta occupando e
l'ambiente della sala cinematografica, le sue luci e le sue ombre, i vicini
scostumati e le reazioni della signora Maigret ai "torpori" del
Commissario, quella precocissima riflessione sullo sconcerto provocato dal
fuori sincrono fra sonoro e immagini. Il metodo di Maigret, il "metodo del
torpore", ha a che vedere con tutto ciò, con il materiale offerto a
Simenon dalle sue letture, letterarie o meno, e dalle sue esperienze, dalla sua
esperienza di scrittore in primis, da quell'"état de romance" che gli
permetteva, al pari di Maigret, di "vivere la vita di tutti i personaggi
ripugnanti, meschini o commoventi del dramma su cui aveva l'incarico di fare
luce".
Difficile
dare una definizione migliore del metodo di Maigret, del suo comprendere e non
giudicare. Difficile dare una definizione migliore della grandezza dello
scrittore, e psicologo, Simenon. Per tale motivo, perché Simenon resta comunque
il miglior interprete di se stesso, è opportuno lasciare in conclusione la
parola a Maigret, quando, sempre in "Cécile è morta", si rivolge al
criminologo americano appositamente giunto a Parigi per studiare il suo
"metodo", ma, fra le righe, pare rivolgersi a noi, lettori più o meno
attrezzati, interpreti, presunti esperti, castigando la nostra presunzione,
richiamandoci al piacere della lettura, al "piacere del testo": "Dev'essere
deluso, lei che sperava di studiare i miei metodi, come diceva stamattina... La
faccio sguazzare nella pioggia... La porto in un banalissimo municipio, poi le
faccio mangiare del pollo al vino... Cosa vuole che le spieghi?... Io le cose le sento...".
Luca
Bavassano
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