venerdì 10 marzo 2017

SIMENON SIMENON. UNO SCRITTORE IN CONTINUO MOVIMENTO

Perché l'esigenza di muoversi sempre, tra viaggi, cambi di paesi e di case?

SIMENON SIMENON. UN ECRIVAIN EN PERPERTUEL MOUVEMENT
Pourquoi cette exigence de se déplacer sans cesse, par les voyages,les changements de pays et de maisons?
SIMENON SIMENON. A WRITER IN PERPETUAL MOTION
Why the need to move about ceaselessly by traveling and changing countries and houses?




Belgio, Francia, Stati Uniti (per non citare il Canada) e Svizzera. Trentanove abitazioni (considerando solo quelle in cui visse per un certo periodo). Viaggi ai quattro angoli del globo, dal Congo alla Guinea, da Cuba ai paesi Scandinavi, da Tahiti a Panama...
Un uomo che dal 1922, anno in cui lascia Liegi per trasferirsi a Parigi, smette di spostarsi e di viaggiare solo quando, dopo cinquant'anni, si stabilisce a Losanna al 12 di rue Figuiers dove rimase stabile per un quindicina d'anni fino alla propria scomparsa.
Stiamo ovviamente parlando di Simenon e quelli accennati sono alcuni passaggi che servono d'esempio, per quei pochi che ancora non lo conoscessero, che servono ad illustrare questa particolare attitudine a "se déplacer" come dicono i francesi. 
Ma era solo un'attitudine o addirittura un atteggiamento compulsivo? 
Infatti stavolta ci domandiamo perché Simenon avesse l'esigenza di muoversi così frequentemente, come se dopo un po' di tempo avesse l'esigenza di liberarsi dai legami di un certo luogo per andare a scoprire mete nuove e sconosciute.
Cosa lo spingeva? 
Possiamo ridurre tutto ad un'irrequietezza caratteriale? O c'é dell'altro?
Domanda pericolosa, perché ci spinge a introdurci nei meandri del suo subconscio e nelle zone più oscure del suo animo, ovviamente muovendoci a tentoni, con la sola possibilità di formulare delle ipotesi e con un'altissima probabilità che da ipotesi si trasformino in domande senza risposta.
Insomma ci spostiamo su un crinale insidioso, ma la spinta e la curiosità a capire un personaggio così particolare come Simenon è talmente forte, che corriamo incoscientemente (e volentieri) anche il rischio di sconfinare fuoristrada.
La  nostra idea è che questi comportamenti non siano mai originati da un solo fattore. E quindi, come dicevamo sopra, certo Simenon era uno spirito irrequieto, ma dobbiamo anche considerare che alzava di continuo l'asticella della conoscenza. E per lui la conoscenza era tanto studiare come vivevano gli abitanti polinesiani, quanto "radiografare" i parigini, dai lavoratori de "Les Halles" alla folla che andava e veniva a la "Gare du Nord". Voleva conoscere (e non solo carnalmente) donne di tutti i ceti sociali e di ogni colore di pelle, come non vedeva l'ora, quando viaggiava per i canali, di spingersi con la sua imbarcazione sempre più su, fino ai Paesi Bassi, fino al Mar del Nord.
Curiosità mista a conoscenza, ecco una combinazione..."esplosiva" che concorreva a generare la spinta a spostarsi. 
Voleva una conferma alla ricerca del suo "uomo nudo"? Certo, Simenon cercava quei valori universali che, a tutte le latitudini e in culture molto diverse, si rivelassero comuni a tutti gli uomini. E quindi ecco la fame di conoscere ogni tipologia umana con le proprie abitudini, i propri condizionamenti sociali, le proprie ambizioni. Una fame che è un altro propellente a quel motore che non sapeva star spento e che acceso, a pieno regime, doveva divorare chilometri vedendo sfilare davanti a sé paesaggi e tipologie umane sempre diversi.
Certo alcuni spostamenti erano motivati, almeno in gran parte, da fattori concreti e ben identificabili. Quando lasciò Liegi per tentare la strada del "romanziere" a Parigi, era spinto da una volontà forte e chiara. Altrettanto forte era la voglia di fuggire dalla Francia nel '45, quando pendeva sulla sua testa la spada di Damocle dell'accusa di collaborazionismo.
Ma non sempre era così. Quante volte si spostò una volta giunto in America? Subito il Canada francese per una questione linguistica, prima a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson. poi a Saint-Andrews. E in Usa? Partiamo da Bradenton Beach, quindi Silver Springs, poi Tucson e ancora TumacacoriCarmel-by-the-sea, Reno, finalmente Shadow Rock Farm a Lakeville dove si fermò circa cinque anni.
Continente nuovo, gente nuova, paesaggi sconosciuti, grandi differenze tra nord e sud... La suddetta "fame" di Simenon era stimolata di continuo? Si e no. Via via che passano gli anni, questa sorta di moto perpetuo diventa una sorta di condizionamento comportamentale,  se non addirittura una coazione a ripetersi.
E  gli anni di quiete? Come i cinque anni passati a Shadow Rock Farm o la decina d'anni nella regione della Vandea (anche se qui si era spostato sia pur di poco in varie località: Marsilly, Nieul-sur-mer, Vervent, Fontenay-le-Comte, Saint-Mesmine-le-Vieux)? Qui forse dobbiamo scendere con i piedi per terra e considerare quanto contassero anche le esigenze di chi viveva con Simenon, mogli, figli, personale vario al seguito.
Ad esempio Tigy, che aveva lasciato Liegi per sposare Simenon e andare a vivere a Parigi, lo segui in Vandea, poi di passaggio in Canada, quindi negli Usa (dove nel '50 divorziò dallo scrittore) e infine nel '55, sempre al suo seguito, ritornò in Europa. Credo che non tutti i componenti di questa famiglia allargata avessero la stessa propensione a "se déplacer" del Georges marito, padre e amante.
Qualche compromesso lo dovette fare quindi anche Simenon? Gli toccò stringere i denti e fermarsi in un luogo per un periodo per lui troppo lungo? Chissà, forse anche lo scrittore aveva ogni tanto bisogno di fermarsi. Anche perché da un certo punto di vista la vita di Simenon era divisa in due: i periodi in cui incamerava storie, personaggi, luoghi, situazioni (in realtà era lui stesso a dichiarare che in mezzo alla folla era sempre in osservazione e sempre in ascolto) e poi i periodi in cui ritirava fuori quello che gli serviva per scrivere i suoi romanzi, i suoi Maigret, i suoi libri autobiografici. Certo lui scriveva sempre, anche nei viaggi più lunghi e in ogni condizione, ma certo un periodo di pausa non poteva non favorire un po' di più la concentrazione sulla scrittura. 
Possiamo dire che questo continuo movimento era connaturato al romanziere, ma che faceva parte del suo modo di essere anche in altri ambiti. La velocità della scrittura per essere libero di cadere di nuovo in ètat de roman. Scrivere un Maigret per poi concedersi ad un roman dur, per poi tornare ad un Maigret e viceversa. Fumare un pipa nell'attesa di accenderne un'altra, soprattutto quando scriveva. Passare da una donna all'altra anche in incontri fugaci, ma senza mai avere un relazione extra-coniugale fissa (eccezion fatta per Josephine Baker, anche se in questo caso  le cose non erano proprio così). 
Non stupisce quindi dopo tutto questo surmenage che nel '72, Simenon deponesse le armi, cioè la penna, ad un'età, 69 anni, alla quale altri scrittori hanno avuto ancora davanti a sé anni e anni di produzione letteraria. Il ritmo di lavoro e l'entrare e uscire dai suoi personaggi, era un'altra forma di "dèplacement", era anche nella scrittura un modo di non star mai fermo: da un romanzo ad un racconto, da un'articolo ad un testo autobiografico. Sarà questa irrequietezza che ha originato un'opera così imponente e di tale qualità? (m.t.)

giovedì 9 marzo 2017

SIMENON SIMENON. “THE CLOCKMAKER”/1

On an important theme in this Simenon "American Novel" 

SIMENON SIMENON. “L’HORLOGER D’EVERTON”/1  
Sur un thème important dans ce roman américain de Simenon 
SIMENON SIMENON. L'OROLOGIAIO DI EVERTON /1
Un tema importante in questo romanzo di Simenon

Communication and the lack thereof play prominent roles in this novel. Beyond the focus on spoken expression, numerous communication devices, auditory and visual, impact the protagonist throughout. For the past 15½ years of his life, Dave Galloway has devoted himself exclusively to supporting his only son. In this life as a single parent and a solo repairman, there has been little opportunity to communicate and seemingly little need for it.
Dave works in a storefront and lives in an apartment just overhead, but symbolically there is “no communication existing between them.” Dave confines his social life in this rural New York village to Saturday night backgammon with a friend, his only friend, but “they don’t go to great lengths” to talk to each other. Although the father and son did have “face to face exchanges,” Ben has “always avoided opening up” and Dave has never talked to anyone” about personal affairs.
When Dave discovers that his teenage son has packed his bag and left town, he is “tempted to stretch out on his belly on his bed and talk to himself, to talk to Ben, head in his pillow,” yet he ends up wondering, “But what would be the point?” The departure is a repeat of the way Dave’s wife left him (with a six-month old baby) “without saying anything.” Divorce papers were their only subsequent communication. As Dave learns his 16-year-old has run off with 15-year-old Lillian, shot a motorist to death, stolen a car, pilfered some money, and triggered a multi-state manhunt, he “wants to scream […] as if distance didn’t exist: Ben!” In a fruitless effort to communicate, Dave writes and tapes appeals for Ben’s surrender. “I don’t blame you. I will always be with you, no matter what happens.” Only impersonal communication from newsprint, loudspeakers, gossip, and police reports results.  
Even after the inevitable arrest, Dave doesn’t get to talk to his son. In fact, Ben refuses to see his father. “I have nothing to say to him.” What’s more, their lawyer insists that Dave “above all, avoid talking” to anyone. When father and son do eventually see one another, they still do not talk. Separated on the plane taking then back, they cannot talk. Separated in the courtroom during the trail, they cannot talk. When Dave achieves a transformation of understanding, he starts trying to transmit a calm, serene smile of reassurance to his son, but Ben continues to avoid looking at his father. Even as Ben begins to “toss curious glances his way,” Dave worries that it may be too late to communicate “the message.” Dave promises, if he ever gets the chance, to openly and directly explain what he has just discovered after all these years: that father and son, “they were one and the same.” 
Headed to prison for life, Ben searches his father’s face, but is he receiving Dave’s transmissions? Their first prison visit was the “most barren one,” so perhaps the communication barrier will slowly be broken down. And Lillian’s pregnancy offers the chance for a new and better talkative cycle since the novel ends with Dave “speaking softly” to his son’s picture “as he would soon speak to his grandson.” Thus, despite its roman dur nature, The Clockmaker does communicate some rays of hope. 

David P Simmons

mercoledì 8 marzo 2017

SIMENON SIMENON. IL "METODO" DI MAIGRET, IL METODO DEL "TORPORE"

Quando Maigret pratica la libera associazione delle idee e delle immagini per trovare la soluzione dell'enigma

SIMENON SIMENON. LA "METHODE" DE MAIGRET, LA METHODE DE LA "TORPEUR"
Quand Maigret pratique la libre association des idées et des images pour trouver la solution de l'énigme 
SIMENON SIMENON. MAIGRET'S "METHOD", THE METHOD OF "TORPOR"
When Maigret practices the free association of ideas and images to find the solution of the enigma


Tutti i lettori di Maigret ben sanno come il Commissario sbotti ogniqualvolta qualcuno cita il suo famoso “metodo”, e sicuramente ha ragione. Maigret non ha un metodo quale viene comunemente inteso, non sviluppa, ad esempio, una rigorosa concatenazione di ragionamenti a partire da dettagli rivelatori. Non segue, per dirla con Peirce e Ginzburg, quel “paradigma indiziario” comune ai classici della narrativa poliziesca.  Perché è verosimilmente questo il senso della sua negazione di seguire un "metodo", il segno della consapevolezza di Simenon di avere dato vita ad un personaggio molto diverso dai suoi illustri predecessori, molto diverso anche dai tentativi simenoniani precedenti e contemporanei alla "Vera nascita di Maigret". E’ invece proprio l’assenza di un metodo ciò che consente a Maigret di farsi “impregnare” dagli ambienti sempre diversi in cui si svolgono le sue inchieste (quanto ciò abbia a che fare con le caratteristiche migliori della scrittura di Simenon è cosa fin troppo evidente), di immedesimarsi nei più diversi personaggi, di "fiutare" l'anima delle persone e delle cose, come leggiamo ne “La casa del giudice”.
Altrettanto bene i lettori conoscono i “torpori” di Maigret, che tante volte lo fanno apparire un po’ ottuso a chi ha la ventura, o sventura, di incrociarlo. Non si tratta però unicamente di una strategia volta a sconcertare o trarre in inganno gli interlocutori, e credo ci sia un passo de “I sotterranei del Majestic” che lo illustra con precisione: “Si trovava in uno stato che conosceva bene. Una sorta di torpore che, pur non impedendogli la percezione di quanto gli accadeva intorno, lo rendeva indifferente, incapace di situare cose e persone nel tempo e nello spazio”.
E’ una condizione che gli studiosi della psiche umana, pur appartenenti a scuole molto diverse, e fornendone spiegazioni altrettanto diverse, hanno più volte descritto. E’ quello stato di libero vagare della mente, di libera associazione delle idee, o delle immagini, sottratte all’usuale contesto di relazioni (“incapace di situare cose e persone nel tempo e nello spazio”), che tanto spesso, rivelando connessioni inattese, conduce alla soluzione di un problema, alla soluzione creativa di un problema, più che ore ed ore di severa concentrazione. Almeno apparentemente, perché, in effetti, quelle lunghissime ore di studio, quel ripetuto girovagare di Maigret nelle medesime strade, corridoi e bistrot, sono la premessa necessaria affinché ciò accada. Necessaria ma non sufficiente, o quantomeno non sempre sufficiente.
D'altronde probabilmente molti di noi, senza bisogno di scomodare filosofi, psicologi ed epistemologi, hanno sperimentato come talvolta uscire per una passeggiata, per “distrarsi” ("lo rendeva indifferente"), sia più utile che continuare ad ostinarsi alla scrivania, ed in effetti anche a Maigret accade di rendersi conto che, “a forza di concentrarsi su un problema”, la sua mente inizia a “girare a vuoto” ("Cécile è morta"). E’ appunto un capitolo molto bello di questo romanzo, ambientato in un cinema, quello che può gettare ulteriore luce sui “torpori” di Maigret: “Pensava in maniera frammentaria, senza cercare di dare un senso a quei brandelli di idee”. E, soprattutto: “In quello stato di torpore fisico, la sua mente, come nei sogni, coglieva relazioni talora bizzarre, percorreva strade che la pura ragione non avrebbe mai battuto”.
Relazioni bizzarre, come nei sogni, irrazionali, che non devono essere forzate al senso comune. Difficile non pensare alla psicoanalisi, a Freud soprattutto, a quella teoria dell'inconscio che delle "libere associazioni" ha fatto un principio ermeneutico primario. Anche se probabilmente è meglio non vincolarsi a rapporti troppo stringenti, è certo che Simenon ha coltivato un interesse precoce, e di lunga durata, nei confronti di tali studi (si veda in proposito l'informato intervento di Maurizio Testa). Ma bisognerebbe riportare tutte le pagine di questo capitolo per comprendere appieno come ciò effettivamente funzioni, nell'intreccio fra i frammenti del "caso" di cui si sta occupando e l'ambiente della sala cinematografica, le sue luci e le sue ombre, i vicini scostumati e le reazioni della signora Maigret ai "torpori" del Commissario, quella precocissima riflessione sullo sconcerto provocato dal fuori sincrono fra sonoro e immagini. Il metodo di Maigret, il "metodo del torpore", ha a che vedere con tutto ciò, con il materiale offerto a Simenon dalle sue letture, letterarie o meno, e dalle sue esperienze, dalla sua esperienza di scrittore in primis, da quell'"état de romance" che gli permetteva, al pari di Maigret, di "vivere la vita di tutti i personaggi ripugnanti, meschini o commoventi del dramma su cui aveva l'incarico di fare luce".
Difficile dare una definizione migliore del metodo di Maigret, del suo comprendere e non giudicare. Difficile dare una definizione migliore della grandezza dello scrittore, e psicologo, Simenon. Per tale motivo, perché Simenon resta comunque il miglior interprete di se stesso, è opportuno lasciare in conclusione la parola a Maigret, quando, sempre in "Cécile è morta", si rivolge al criminologo americano appositamente giunto a Parigi per studiare il suo "metodo", ma, fra le righe, pare rivolgersi a noi, lettori più o meno attrezzati, interpreti, presunti esperti, castigando la nostra presunzione, richiamandoci al piacere della lettura, al "piacere del testo": "Dev'essere deluso, lei che sperava di studiare i miei metodi, come diceva stamattina... La faccio sguazzare nella pioggia... La porto in un banalissimo municipio, poi le faccio mangiare del pollo al vino... Cosa vuole che le spieghi?... Io le cose le sento...".



Luca Bavassano

martedì 7 marzo 2017

SIMENON SIMENON. ADIEU MICHEL…

Un hommage à Michel Schepens, le secrétaire et l'âme de l'association "Les Amis de Georges Simenon"

SIMENON SIMENON. SALUTO A MICHEL
Un omagio a Michel Schepens, il segretario e l'anima dell'associazione "Les Amis de Georges Simenon"
SIMENON SIMENON. FAREWELL, MICHEL…
A tribute to Michel Schepens, the secretary and the soul of the association "Les Amis de Georges Simenon"

Michel Schepens, secrétaire de l'association Les Amis de Georges Simenon vient de nous quitter. J'ai eu la chance de le rencontrer à deux reprises, pour des discussions hélas trop brèves, et nous avions échangé une certaine quantité de courriels à propos de notre passion commune sur Simenon. Nous nous étions promis de nous retrouver pour pouvoir parler encore et toujours de Simenon, mais la maladie a balayé ces bonnes résolutions. Avec une profonde tristesse et bien des regrets, cher Michel, je te fais mes adieux, avec cette petite phrase, en guise de clin d'œil, à toi qui étais aussi un féru de chanson française…

Adieu Michel, on t'aimait bien, tu sais
On a aimé les mêmes livres
On a aimé le même monde
C'est dur de te voir partir
Mais il reste les souvenirs…


Murielle Wenger

********************

Un ciel gris, un canal à la Simenon, il est sept heures du soir. Depuis quelques mois, je suis un enragé de Simenon et j’ai organisé, le vendredi 29 avril 1983, dans les locaux de ma société, une réunion de personnes ayant un intérêt pour l’œuvre de cet auteur. Je ne les connais pas, sauf un, et si j’ai pu les réunir, c’est par le bouche à oreille. Nous sommes une dizaine. Pour faire sérieux, j’ai donné un nom à ce groupe: Cercle Georges Simenon.
Parmi les personnes présentes, un certain Michel Schepens. La personne que je
connaissais d’avant m’avait assuré: "Ce Schepens est un grand collectionneur, et quand il cherche, il va vite". En effet, Michel est de la famille des mange-tout, difficile de dire ce qu’il ne collectionne pas. Pour les auteurs, citons Thomas Owen, Stanislas André Steeman, Georges Simenon et surtout Sacha Guitry. En ce qui concerne Guitry, Michel a amassé sa collection si rapidement que les libraires parisiens lui ont donné le surnom de «TGV», Tout Guitry Vite. Pour l’œuvre de Simenon, sa passion a débuté un peu plus tard, en partie à cause de la réunion que je cite plus haut. Plus tard, mais pas moins vite: en quelques mois, Schepens avait déjà une collection Simenon importante. Michel était en ce temps-là directeur d’une importante société française d’électroménager et à ce titre, il devait se rendre fréquemment à Paris, ce qui explique ses bonnes et nombreuses visites aux bouquinistes parisiens.
Après quelques années de réunions du Cercle Georges Simenon, c’est Michel qui arriva, à la fin de l’année 1986, avec l’idée de créer une véritable association sans but lucratif et le Moniteur belge publia le 22 janvier 1987 les statuts de cette jeune association «Les Amis de Georges Simenon». Sans vouloir diminuer en rien les mérites  de son président, Jean-Baptiste Baronian, il faut reconnaître que l’association n’existait en fait que grâce au travail incessant de Michel. Officiellement trésorier et secrétaire, Schepens était en réalité l’homme à tout faire de notre groupe. C’est lui aussi qui eut l’idée des «Cahiers Simenon», édition annuelle d’un recueil de textes sur un sujet changeant d’année en année. A ce jour, 29 cahiers existent et un 30ème est en préparation. Ce sera vraisemblablement le dernier, car c’est Michel qui s’occupait de récolter les textes, de la correction de ceux-ci, de la mise en page et de l’impression finale.
Chaque année, l’association tenait une assemblée générale et là aussi, Schepens en était la cheville ouvrière, trouvant le local où se tiendrait la réunion, organisant le programme, trouvant l’un ou l’autre orateur et parvenant à chaque fois à nous montrer un film rare. Plus prenant encore était son travail de tous les jours, soit le secrétariat. En effet, aujourd’hui nous avons près de 250 membres venant de pays divers et les échanges de courrier sont multiples.
Vers le milieu de 2016, il nous faisait savoir, à nous administrateurs de l’association, qu’il était fatigué et voulait mettre son mandat à disposition. Est-ce le début de la fin de l’association ? La question est posée. Nous espérions motiver Michel pour continuer, mais soudain la maladie l’a frappé. Maladie grave, au point que deux interventions chirurgicales n’ont pas pu le sauver. Né le 17 juillet 1938 à Roubaix (France), il nous a quittés le dimanche matin 26 février 2017, à l’âge de 79 ans. Merci Michel pour ton travail incessant, ton enthousiasme communicatif et ton amitié.

Philippe Proost