mercoledì 25 maggio 2011

SIMENON. CASCO COLONIALE E SAHARIANA, L'AFRICA CHIAMA

Dopo aver scritto di luoghi esotici ai confini del mondo nei suoi romanzi d'avventura, durante il periodo dei romanzi popolari, Simenon decise, quando le sue entrate glielo permisero, di andare a visitare di persona quei posti di cui aveva parlato soltanto tenendo aperto davanti agli occhi un atlante e facendo ruotare un mappamondo nel suo studio di place des Vosges.
Era l'estate del 1932 e la sua meta era dunque l'Africa. La voglia e la motivazione erano quelle di passare la linea di demarcazione tra fantasia e realtà, con la consapevolezza che l'avventura dei suoi scritti popolari era ormai alle sue spalle e che sarebbe andato incontro ad un realtà che non conosceva e sicuramente molto diversa.
Messo piede nel continente nero, in Egitto, si rese subito conto che parte di quella realtà erano le complicazioni e le lungaggini burocratiche, le lunghe attese, le difficoltà di ordine diplomatico. Ad ogni modo il suo tragitto era segnato. Dal paese delle piramidi dritto verso il centro-Africa, fino all'equatore. E quindi giù per Kartoum e poi il Congo Belga con la discesa dell'omonimo fiume per oltre 1500 chilometri, fino raggiungere Kinshasa (allora Leopoldville)  e poi il ritorno con imbarco al porto di Matadi, scalo in Gabon, prima a a Port-Gentil e poi Libreville, quindi in Guinea a Conackry e poi il gran salto fino a Bordeaux. In pochi mesi il suo gran-tour africano si conclude, compiuto davvero a passo di corsa. Ma non era una vacanza, spiegherà Simenon, era lavoro, una via di mezzo tra la documentazione e il reportage giornalistico: tanti appunti, centinaia di foto e molte idee nuove.
Una volta tornato aveva infatti sfatato alcuni luoghi comuni e ne aveva confermato degli altri. Per esempio ora aveva la certezza che i cannibali esistevano davvero. Ma prese coscenza di quanto il colonialismo fosse una forma di prevaricazione e sfruttamento. Una convinzione che troverà riscontro in articoli, di cui alcuni fecero addirittura scalpore. Non solo, ma se ne troverà traccia anche in certi suoi romanzi come Coup de lune (1933), 45° à l'ombre (1936) e Le Blancs à lunettes (1937). Tra le altre denunce, deplorò la costruzione della ferrovia in Congo che, commentò, costava la vita di un negro per ogni traversina e di un bianco per ogni chilometro realizzato.
La condizione d'inferiorità cui l'uomo bianco costringeva i leggittimi abitanti di quel continente era uno standard di normalità che Simenon ebbe di continuo sotto gli occhi. Con situazioni limite, come quella in cui ai negri non si insegnava la lingua del colonizzatore, per meglio relegarlo nel suo ghetto, salvo poi usare le donne come, amanti e serve, a seconda dei casi.
In definitiva aveva sperimentato l'Africa cruda dei tempi del colonialismo: "... Qui non c'è sentimentalismo, può darsi perché non c'è letteratura. E la tristezza che vogliamo a tutti i costi leggere negli occhi dei negri, non è solo la loro tristezza, ma quella di tutta l'Africa, degli alberi, dei  fiumi, degli animali...". (L'heure du négre - 1932)

martedì 24 maggio 2011

SIMENON. L'UOMO CHE NON ERA MAIGRET


Un brano da "Simenon", un film del 2003, del regista Manu Riche, tratto dalla biografia di Patrick Marnham. La pellicola dura 52 minuti ed è stata girata in 16 mm. La sceneggiatura è di Steve Hawes.(manuriche)

lunedì 23 maggio 2011

SIMENON. LO STILE CHE CAMBIA E LE MOTS-MATIERE

Stile Simenon. E' un po' come le famose atmosfere simenoniane. Un elemento della sua opera letteraria considerato dalla critica molto caratterizzante.
Secondo l'autore lo stile scaturisce dalla vicenda che si sta raccontando, influenzato dalla vita reale che prima passa sulla pagina scritta e poi arriva al lettore. Per questo motivo utilizzava quelle che chiamava mots-matière, cioè parole materia, quelle semplici, concerete, univoche, comprensibili da tutti. Poi vengono nella lista delle precedenze simenoniane il ritmo, la poeticità della prosa, la sintassi (per esempio in Belgio sostenevano che lui utilizzasse un francese non corretto. E Simenon replicava " E' possibile, io vivo a Parigi e loro a Bruxelles")...
Tornando alle mots-matière è un concetto molto interessante. Ecco come ne scrive lo stesso Simenon ne Le Romancier (1945): "... delle parole, se volete, che hanno il peso della materia, delle parole che hanno tre dimensioni.... un pezzo di carta, un scorcio di cielo, un oggetto qualunque, spesso i più elementari della nostra vita, prendono una importanza misteriosa...".
E per spiegarsi meglio ricorreva all'arte sua prediletta: la pittura. E affermava che una mela dipinta da un vero pittore, come ad esempio Cézanne, aveva un suo peso e lui con le sue parole cercava di raggiungere lo stesso risultato.
Certo anche la sua prosa si modificava, come è ovvio, con il passare del tempo, in merito alle esperienze, in relazione all'età e ai differenti stati d'animo tipici del periodo.
Per esempio lo stile usato negli scritti degli anni '30 era più brillante, più ricco di aggettivi, mentre con il passare degli anni Simenon ha sempre cercato di asciugare il proprio stile, di tagliare, di essere più essenziale, con l'obiettivo di aderire più possibile allo spirito e al linguaggio dei suoi personaggi, tendendo  così ad uno stile più neutro possibile.
"...cerco un stile non solamente neutro, ma uno stile adeguato alle concezioni      dei miei personaggi in quel momento -  spiega Simenon in un'intervista del '63 -  Lo stile deve seguirli in ogni momento e modificarsi quando cambiano i pensieri dei miei protagonisti..."

domenica 22 maggio 2011

SIMENON. SI SCRIVE MAIGRET, MA IN ITALIA SI PRONUNCIA CERVI.

Dalle nostre parti Maigret ha la faccia di Gino Cervi. Almeno per i molti che per ragioni anagrafiche hanno potuto vedere gli sceneggiati prodotti dalla Rai tra la metà degli anni sessanta e i primi anni settanta, oppure le repliche che sono state riproste nel corso degli anni. E poi, ma forse per un pubblico in parte sovrapponibile al suddetto, varie edizioni, prima su videocassetta, poi più recentemente su dvd, che la Rai stessa e altre case editrici hanno riproposto a più mandate, riscontrando sempre un notevole successo.
Si è più volte detto, in base a quanto scritto in un'intervista dell'85 a Giulio Nascimebeni, che Simenon avesse affermato che il Maigret di Cervi era quello che preferiva. Questo non è povato. In altre parti lo scrittore si era espresso invece per l'inglese Rupert Davies, come miglior interprete non francese. In realtà non lo interessavano le riduzioni televisive delle sue inchieste di Maigret, come non lo appassionavano le produzioni cinematografiche tratte dai suoi romanzi. Motivo? Quello che vedeva realizzato non lo soddisfaceva mai, perché si trattava di qualcosa che lui aveva creato e su cui poi qualcun'altro metteva le mani, più o meno arbitrariamente, modificandolo a suo gusto e piacimento.
L'unico di cui disse qualcosa di confermato fu Jean Gabin, commentando "Dopo aver visto al cinema il Maigret di Gabin e di Delannoy (il regista), ogni volta che mi metto alla macchina da scrivere per una nuova inchiesta del commissario, mi viene sempre davanti la faccia di Jean... Ho paura che prima o poi mi venga a chiedere i diritti!..". Tra l'altro tra Simenon e Gabin c'era un certa amicizia personale, avendo l'attore interpretato una decina di film tratti dai suoi romanzi.
Ma torniamo in Italia e a Gino Cervi. Come mai entrò così bene nella parte del commissario e nell'immaginario collettivo degli italiani? Tenendo poi conto che Cervi partiva un po' svantaggiato. Infatti lui era un bravo attore di teatro, tanto da iniziare a calcare le scene nel '21 e da essere già nel '24 chiamato dalla Compagnia del Teatro d'Arte di Pirandello. Ma era anche un grande attore di cinema (circa 120 film in tutta la carriera) e il suo handicap era di aver già interpretato un personaggio molto popolare. Come non ricordarsi del famoso sindaco comunista nella serie cinematografica Don Camillo e l'onorevole Peppone, dove Cervi vestiva i panni del sindaco comunista di un paese della bassa pianura padana e litigava di continuo con il parroco interpretato da Fernandel?
Era il 1952 e quel film divenne il primo di una serie di cinque (fino al 1965) che gli dette grande popolarità in Italia, ma anche in Francia. Insomma per il grande pubblico, non certo per quello che lo seguiva a teatro, Cervi si indentificava allora con il sindaco comunista, burbero campagnolo, sanguigno, non molto istruito, protagonista delle pellicole tratte dai libri di Giovannino Guareschi.
Ormai in quegli anni la televisione aveva iniziato ad essere un mezzo in forte competizione, e spesso vincente, con la radio, il cinema, il teatro. E i suoi successi contavano milioni di telespettatori. Cervi s'imbarcò in questa avventura, anche se non con poche garanzie. Il regista era Mario Landi, le sceneggiature uscivano dalle mani di Diego Fabbri e il delegato alla produzione Rai era un allora sconosciuto ai più Andrea Camilleri.
La serie si rivelò subito un grande successo e con quegli sceneggiati Cervi riuscì quasi a farsi dimenticare come Peppone, ma si identificò come commissario Maigret nell'immaginario collettivo di milioni e milioni di italiani. Tanto che la Mondadori, che allora pubblicava in esclusiva le inchieste del commissario, commissionò al grande disegnatore Ferec Pinter delle copertine dove Maigret aveva le fattezze di Cervi. I cinema sistemavano in sala i televisori, quando la Rai trasmetteva le puntate del commissario, per non perdere pubblico in quelle serate in cui vennero raggiunti picchi di diciotto milioni di spettatori.
Ma Cervi perchè ebbe tanto successo come Maigret?
Certo non si può trascurare la consumata bravura dell'attore, la precisa regia, l'ottima sceneggiatura e il cast di attori di livello, quasi tutti di origini teatrali che lo affiancavano.
Ma a nostro avviso c'è un altro motivo. L'analogia tra il personaggio Maigret e l'uomo Gino Cervi. Simenon fa nascere Maigret a Saint-Fiacre, una località di campagna nell'Allier e il piccolo Maigret cresce con i valori schietti e le abitudini semplici di chi allora viveva in piccoli centri o a contatto con la natura. Cervi era nativo di Bologna, ma da buon emiliano aveva anche lui un certo rapporto con la campagna e i valori genuini. Chi per necessità (Maigret) chi per seguire la passione (Cervi), tutti e due interrupperò gli studi. A ventiquattro anni iniziarono a lavorare: Maigret viene assunto in Polizia e Cervi entra nella compagnia di Pirandello. Si sposano pressappoco alla stessa età Maigret a 25 anni e Cervi a 27. Hanno entrambe la tendenza ad essere una buona forchetta e buoni bevitori.
La pipa no. Cervi non aveva mai messo in bocca un pipa prima di interpretare Maigret. Eppure il suo modo di fumarla appare molto naturale (come ogni fumatore di pipa, sottoscritto compreso, vi potrà confermare), ma qui valeva la sua bravura d'attore.
Tutto ciò, secondo noi, ha permesso a Cervi di entrare facilmente nel personaggio di Maigret, aiutato anche da una certa confidenza con la Francia, per aver lavorato con molte produzioni cinematografiche francesi e aver fatto in quel paese anche delle tournée teatrali. Inoltre anche fisicamente la sua figura massiccia di quegli anni era lo specchio di quella di Maigret.
E come accennavamo prima, a distanza di quasi quarant'anni dall'ultima puntata, le inizative editoriali che portano in edicola i dvd delle sue quattro serie (sedici sceneggiati) fanno ancora successo, come i Maigret ogni volta che escono in libreria.
Insomma dopo tanti anni potremmo davvero dire che il Maigret di Cervi è ormai un classico televisivo.

sabato 21 maggio 2011

SIMENON. IL DOLORE PIU' GRANDE: MARIE-JO SI UCCIDE /2

Ieri ci siamo occupati del suicidio della figlia di Simenon, delle sue modalità e di come la giovane arrivò a quel drammatico gesto. Non siamo certo i primi che ce ne occuppiamo, come potrete immaginare questo fatto così traumatico, ebbe  una grande influenza su un padre anziano (74 anni) e l'intreccio di fattori concorrenti è stato più volte analizzato, anche se come in questi casi è poi molto difficile arrivare a delle conclusioni univoche e chiarificatrici.
Gli psicoanalisti dicono che quasi sempre le cause di un gesto del genere va ricercato nell'infanzia, nel rapporto con i genitori, in avvenimenti traumatici che sono stati vissuti nellarima età. Ma poi vanno considerati fattori che sono differenti da caso a caso.
Proveremo comunque a sintetizzare le varie ipotesi e le varie vicende che tra biografi e specialisti emergono dalle testimonianze dei protagonisti di questa amara vicenda.
E allora andiamo al 1955. La piccola aveva due anni appena e lui aveva l'abitudine, la mattina prima di uscire, di andare a sollevarla ed abbracciarla. Un gesto d'affetto e d'amore che tanti padri fanno. Una mattina invece, per una serie di contrattempi, questo piccolo rito quotidiano non poté essere celebrato. Quando Simenon dopo una mezz'ora tornò trova un dramma. C'è un dottore e le donne della casa, la madre Denyse, la Boule e la nurse in pianto. Il motivo era una sorta di sincope che aveva colpito  Marie-Jo, che giaceva semisvenuta con un colorito cadaverico. Appena lo vide, il dottore spinse il padre a prenderla in braccio e coccolarla. La piccola infatti si riprense, sorrise e, quando si rese conto di essere in braccio al padre, disse con filo di voce: " Mai più questo, Dad...", e poi dirà che la mamma non ha voluto abbracciarla. Questo innescherà una polemica tra moglie e marito che si scambieranno vicendevolmente la responsabilità di quello che è successo, anticipando singolarmente le posizioni che assumeranno quando la figlia si suiciderà.
Comunque da questo avvenimento emerge tutta la fragilità della piccola e, diremmo quasi la sua dipendenza dal padre. E d'altronde strane manifestazioni danno da pensare. La bambina soffriva di febbri che i pediatri non si spiegavano, dimostraav in vari modi la paura che il padre potesse non amarla più. Per di più  quando Simenon in ètat de roman, si isolava per una settimana-dieci giorni per concentrarsi sulla scrittura, le crisi di Marie-Jo si intensificavano.
Altro fatto più volte riportato è la storia dell'anello. Un giorno, Marie-Jo aveva otto anni e la famiglia già viveva in Svizzera, padre e figlia fecero un giro per il centro di Losanna. Georges aveva intenzione di fare un regalino alla figlia e, davanti alla vetrina di una gioielleria, le mostrò alcuni anellini da bambina. Ma Marie-Jo aveva le idee ben chiare. Voleva una fede, come quella che portava il padre, una fede nunziale.
Sul momento Simenon non dette peso a quello che poteva motivare quella richiesta che poteva sembrare solo un piccolo capriccio infantile e lo assecondò. Ma negli anni seguenti ebbe modo di consatatare l'attaccamento di Marie-Jo a quell'anello, tanto più che al tempo lei volle che fosse il padre ad infilarglielo al dito. Altro gesto simbolico al quale la figlia dette un significato molto particolare che invece il padre sottovalutò.
Altro avvenimento traumatico per la bambina si verificò a undici anni.
In vacanza sulla neve a Villars-sur-Ollon con la madre (appena uscita da un perido di cura alla clinica Prangins). La vacanza si trasforma in un trauma per Marie-Jo. Qualcosa successe tra madre e figlia, qualcosa che colpì fortemente la bambina e che forse segnò il suo ingresso in uno stato patologico permanente.
Non parlò a nessuno dell'accaduto, si rinchiuse in sé, iniziò ad avere manìe e atteggiamenti compulsivi. Si saprà poi, grazie ad una di quelle cassette che Marie-Jo incideva e inviava al padre a Losanna, che la madre si esibì davanti a lei in un scena di autoerotismo. Marie-Jo racconta "...tu mi hai detto (riferendosi alla madre) che io non sarò mai più capace nella mia vita di essere una vera donna davanti ad un uomo, perché conserverò sempre la tua immagine, l'immagine del tuo sesso aperto davanti a me, l'immagine delle tue dita che cercano il piacere ....mentre ci guardavamo rispettivamente negli occhi...".
Da quel momento Marie-Jo entrerà e uscirà da cliniche, case di cura, si sottoporrà a cure e a sedute di psicoanalisi, ma il suo senso di inadeguatezza e di sarrimento non cesserà. Subirà anche la statura letterararia del padre (di cui lesse quasi tutti i libri) che inevitabilmente frustrava le sue ambizioni di scrittrice. Ma non riuscirà a trovare una sua strada, provò ad esempio a fare l'attrice, ma la sua ansia e la sua insicurezza ben radicate, provenivano da lontano e le precludevano scelte concrete e gratificanti. Forse addirittura dall'infanzia, quando dovette vivere quell'atmosfera infernale determinate dalle interminabili liti tra i genitori, tra l'altro in un momento in cui entrambe facevano abuso d'alcol.
Tutto questo concorse poi alle fughe dalle cliniche, ai tentativi di suicidio, alle scelte sbagliate nella ricerca di un compagno, ai comportamenti sempre più ossessivi compulsivi, alla comparsa di vere e proprie fobie come quella per la pulizia, all'incapacità di gestire il proprio tempo e agli eccessi di perfezionismo.
Simenon ne era cosciente da tempo, ma si sentiva inadeguato e disarmato di fronte a questa tragedia. Una frase sintetizza questo suo stato: "Volevo amarla, ma non sapevo in quale modo". Nel periodo più critico poi lui era ormai vecchio, fragile, non in buona salute, lui a Losanna lei a Parigi, così lontano non poteva che sentirla per telefono o scriverle lettere. Avrebbe voluta aiutarla meglio, ma, come aveva detto già altre volte, si sentiva come un nonno per quelli che invece erano i propri figli. Ormai le sue risorse e le sue forze personali erano molto ridotte e non poté che apprendere impotente del suicidio della figlia. Gli rimanevano da vivere poco più di una decina d'anni, ma la sua vita non fu più la stessa. Era il 20 maggio 1978.

venerdì 20 maggio 2011

SIMENON. IL DOLORE PIU' GRANDE: MARIE-JO SI UCCIDE /1

Proprio il 20 maggio di trentatre anni fa', l'unica figlia femmina di Simenon, a Parigi, si sparava un colpo di rivoltella al cuore. Aveva 25 anni.
Lo scrittore lo apprende il giorno dopo a Losanna, da una telefonata del figlio Marc. Era stato lui infatti che, chiamandola più volte il 20 e non avendo risposta, si era preoccupato, aveva raggiunto Parigi. Lì tentò di aprire la porta dell'appartamento che però era chiusa a chiave dall'interno. Dovette chiamare i vigili del fuoco che abbatterono la porta e lì trovarono il corpo di Marie-Jo, riverso a terra, senza vita.
Marie Georges Simenon aveva già tentato il suicidio nel maggio del '75.
La ragazza aveva problemi di depressione e psicologici che l'avevano portata per un periodo alla clinica Villa des Pages, dove si curava e passava la notte, ma durante la giornata tornava a casa. In quell'occasione aveva prima ingerito un notevole dose di barbiturici e poi, in extremis, aveva chiamato il pronto soccorso.
Allora aveva lasciato una lunga lettera d'addio al padre dove si rammaricava di farlo soffrire con quel gesto, ma che era necessario perchè non riusciva più a lottare contro i suoi fantasmi, a sopportare le proprie contraddizioni, a superare l'incapacità di stabilire dei rapporti con gli altri... Completavano il quadro i suoi sogni infranti, le sue velleità, la vana ricerca di qualcuno che la comprendesse...
Una fragilità che cercava spesso spesso un appoggio e un sostegno dal padre, anche se ormai vecchio, anche se lontano (lei a Parigi e lui a Losanna), con il quale aveva un rapporto fatto di telefonate, di lettere... E di quel padre lei ne aveva idealizzato quella figura. 
"...Non ho mai saputo davvero parlare veramente con una persona! Ma adesso devo avere il coraggio della mia vigliaccheria, della mia incapacità di affrontare la vita...Non voglio essere più di peso a nessuno... E poichè non so amare, come pare si debba amare, perché dibattermi per rimanere in un mondo che mi angoscia e nei confronti del quale mi sento disarmata?...". La lettera inziava con un "Mio, caro, grande, amato Dad" e finiva con "La tua 'bambina' Marie-Jo".
Ma quel campanello d'allarme suonò invano. Oppure era solo il prologo di un'inevitabile processo di autodistruzione.
Ancora case di cura, ancora periodi di esaltazione e depressione. Il padre le comprò una nuova casa-studio in centro a Parigi, convinto che quello fosse il posto giusto per lei...A dicembre '77 sembrava essersi davvero ripresa e si interessava dell'allestimento della nuova casa. Continuavano le telefonate tra padre e figlia, quasi con frequenza quotidiana, si scrivevano lettere e Marie-Jo incideva e gli spediva anche numerose audio-cassette. A febbraio '78 andò a Losanna dal padre. Poi iniziò un periodo oscuro, durante il quale uscì il libro scritto dalla madre Denyse che era tutto un'accusa a Siemenon, spesso e volentieri con argomenti inventati e infamanti.
La cosa ferì molto Marie-Jo che chiese al padre di non rispondere a quelle malignità. In realtà un settimanale femminile pubblicò una vecchia intervista allo scrittore che, abilmente manipolata, sembrava una risposta per le rime al libro. Ma per avere una smentita ci volle tempo, era tardi per il numero successivo e occorrerà attendere ancora. Il 16 maggio Marie-Jo vede sua madre che, in linea con la sua stravaganza, si mette nuda davanti a lei per mostrarle le cicatrici di tutti i suoi interventi, e metterla in guardia di come si è quando si diventa vecchie.
Il 19 mattina chamata al padre, la linea è disturbata e Simenon non sente più bene. Ma il succo di tutto sembra sia che Marie-Jo volesse sentire il padre dirle "Ti voglio bene". E così fu.
La comunciazione successiva fu quella di Marc. Marie-Jo non c'era più.