martedì 26 luglio 2011

SIMENON CONTRO IL GENERALE DE GAULLE

Soffermiamoci sulla storia politica, esattamente quella francese di cinquant’anni fa’. Sappiamo che Simenon non ha mai amato la politica e se n’è occupato solamente quando non ne ha potuto fare a meno, oppure quando lo ha toccato in prima persona. Non che non avesse le sue idee e dei convincimenti chiari. Ma insomma diciamo che l’interesse di Simenon, non solo letterariamente parlando, era concentrato, più sull’individuo, la sua psicologia, la spiegazione del perché di certe sue azioni e di come nella vita di ognuno di noi alcuni fatti producono dei meccanismi che portano a delle specifiche conseguenze.
Nelle espressioni della sua vita privata e in certe sue opere biografiche invece possiamo imbatterci nella critica di alcuni personaggi anche di rilievo.
Cosa però rara, anche per il fatto che, non avendo mai accettato la nazionalità francese, come anche quella statunitense o quella svizzera, aveva sempre l'alibi per tenersi un po’ al latere del dibattito politico e appunto trincerarsi dietro un “… io poi in realtà sono belga e…”.
Qui ci occuperemo  di quello che pensava di Charles De Gaulle, uno degli uomini più amati e più odiati della Francia, ma da cui la storia di quel paese, e non solo, dalla seconda guerra mondiale agli anni ’60 non può certo prescindere.
“… Fin dagli inizi dell’esperienza di De Gaulle ero irritato non soltanto dalla sua aria di sufficienza, ma dal suo disprezzo dell’opinione degli altri, ma per ciò che lui e il suo entourage rappresentano (teorici usciti da quelle scuole che si sforzano a ridurre i problemi sociali a equazioni, tutti più o meno appartenenti alle grandi banche o ai più influenti gruppi d’affari)…”
Insomma, Simenon vede un partito costruito in maniera piramidale, dove non c’era posto per altre posizioni politiche, ma anche per altri veri politici, bastavano i tecnocrati. Un sistema di potere dove le teorie e le decisioni del capo scendevano giù dal vertice sino alla base della piramide, senza confronti e senza incontrare ostacoli. E su questo Simenon non faceva sconti, confessava addirittura che certe volte si compiaceva di certi insuccessi della politica francese, perché erano gli insuccessi di De Gaulle. Era arrivato ad essere tentato di firmare la petizioni dei 121 intellettuali francesi che si erano schierati contro l’invio dei soldati  Algeria e al loro diritto alla diserzione per non compiere atti contrari alla propria coscienza e contro la popolazione algerina. E’ vero, Simenon parla solo di tentazione di firmare l’appello (cosa che poi non fece). Ma già che un simile pensiero si fosse fatto strada nel cervello di un apolitico (come si definiva lui  stesso) sempre accuratamente al margine delle prese di posizione politiche in pubblico, era un sintomo chiaro dei suoi  sentimenti verso il Generale.
“…allora, si leggano freddamente i suoi discorsi. Non sono altro che dei luoghi comuni e dei falsi machiavellismi, il tutto è paccottiglia. Ci si batte nelle strade di Algeri e lui, da due anni, prende in giro tutti, li illude… E adesso che ha preso i pieni poteri, secondo me non intende più lasciarli – scrive Simenon nel ’61 in Quand j’étais vieuxe annuncia che in un paese moderno le libertà non si possono difendere che con…delle restrizioni delle libertà… Mente, si contraddice, tergiversa, le espressioni del volto come quelle di un clown triste e non c’è nessuno che scoppi a ridere o che urli: J’accuse!”.
Ma gli strali di Simenon non si appuntano solo sul capo, ma anche sui suoi uomini e i suoi più stretti collaboratori.
“…disprezza tutti gli uomini, anche quelli che compongono il suo ‘entourage’. Ed e vero, perché li sceglie tra i meno interessanti. E, nonostante tutto, li porta come esempio…”.
Poi c’è la repulsione che Simenon nutriva per le eccessive esteriorizzazioni e che invece erano un punto importante del sistema mediatico del Generale.
“…La grandeur di cui ha piena la bocca è il nazionalismo più estremo, il più esaltato e il più aggressivo, la pompamagna, i costumi, le uniformi, le parate, le messe in scena e un protocollo che, con mio grande stupore, è sconosciuto anche nei paesi più rigidamente monarchici, dovrebbe far ridere la gente…”.
E il romanziere, che non può certo essere tacciato di simpatie comuniste o di posizioni di sinistra, va giù duro.
“…E’ là, un anacronismo vivente,  che pretende di sapere tutto, di comandare personalmente ogni cosa, con il solo aiuto di sé stesso… Parla ai “Francesi”, ma quei Francesi non sono il popolo, che lui guarda da molto in alto, ma si tratta dei rappresentanti dei grandi interessi privati…”.
Simenon si chiede abbastanza spesso quanto tutto ciò potrà durare, ma non sa darsi risposta. O meglio la sua risposta ci riporta ancora alla propria visione del mondo dell’uomo, del romanziere, dell’indagatore dell’animo umano.
“…Io mi preoccupo per i veri uomini, per quelli che lavorano in silenzio e che non si credono infallibili, che dubitano, che avanzano poco a poco e fanno progredire l’uomo in tutti i campi della conoscenza. Per tutti questi la sua (di De Gaulle)  presenza è come un insulto…”.
Dopo cinquant’anni possiamo dire che la politica è cambiata, almeno negli aspetti qui denunciati da Simenon?

lunedì 25 luglio 2011

SIMENON. AGGIORNAMENTO DALLE CLASSIFICHE

La versione originale di Maigret e l'uomo solitario
Torniamo a dare qualche numero e iniziamo con quelli de Il Corriere della Sera del 21/7 che vede il romanzo L'assassino ancora nei Top 10, ma con una scivolata dall'8° al 10° posto. Lo stesso titolo lo ritroviamo nella sezione Narrativa straniera al 6° posto assieme all'inchiesta Maigret e l'uomo solitario al 9° posto. Non molto diverse le classifiche pubblicate il 23/7 da TuttoLibri de La Stampa che riporta al 10° posto della classifica assoluta il romanzo, che invece scopriamo essere ancora 6° nella sezione Narrativa straniera. Nei Tascabili, Maigret e l'uomo solitario sbaraglia tutti conquistando il 1° posto. Il giorno dopo su La Repubblica/R2 Libri vediamo confermato L'assassino al 10° nella Top Ten, piazzato sempre al 6° nella Narrativa straniera, mentre il Maigret anche qui tiene saldamente il 1° posto nella sezione Tascabili. Per i libri venduti on-line, nell'ultima classifica IBS troviamo L'assassino al 5° posto, mentre l'ultimo Maigret solo 21°.

SIMENON E MARCEL PROUST

Quando nel ’34 per Simenon si aprirono le porte della ambita case editrice Gallimard (vedi il post del 20/11/2010 Il contratto con Gaston Gallimard) si inaugurò anche una convivenza sotto lo stesso tetto editoriale con personaggi e addirittura icone della cultura francese cui certo non era abituato da Fayard o ancor meno da Ferenczy o Tallandier. Stiamo parlando di nomi come  Andrè Gide, Paul Valery, Marcel Proust. Se da una parte vedere i titoli dei suoi romanzi a fianco di quelli di tali mostri sacri non poteva che inorgoglirlo, dall’altra la convivenza con nomi così… ingombranti non era psicologicamente facile per chi, come lui, era sempre stato la punta di diamante dei precedenti editori.. che ovviamente non erano Gallimard.
Anche se poi di questi Gide era un suo appassionato ammiratore e un suo sponsor presso Gallimard e Proust  era uno degli scrittori che Simenon ammirava di più.
Anzi, a questo proposito, Simenon affermava di aver letto due volte l’opera di Proust, una prima volta man mano che uscivano i romanzi e poi una seconda con l’opera completa così come era stata edita appunto da Gallimard. L’autore di Pedigree poi non poteva non apprezzare  questo rincorrere la  propria infanzia prima e  poi l’adolescenza, la ricostruzione dei ricordi e delle atmosfere di quel particolare periodo.
E anche se Simenon considerava Proust uno dei maggiori romanzieri dei suoi tempo, questo non lo esimeva però dal constatare come la costruzione del romanzo in Proust  fosse molto diversa da quella propria.
Quello che mi disturba un po’ è forse  il modo  con cui Marcel Proust  costruisce le sue opere. E’ anche  il tipo di mondo, ma questo lo sapevo, che ha scelto di descrivere. Non condivido il suo modo di descrivere un ricordo, che sia il  colore di un vestito, il ricamo che lo guarnisce, la pettinatura di questa o quella sua eroina, questa insistenza, questo bisogno di vedere subito l’originale  per essere certo che i suoi ricordi non lo ingannino… ma cosa importa se il vestito che portava la duchessa quel giorno, alla tale ora, in quel dato salone fosse grigio o rosa…  E’un po’ come quando si recava di notte al Ritz per rivedere bene dei visi ed essere così essere sicuro di rappresentarli con verosimiglianza…”
Ma l’analisi di Simenon è profonda. Nonostante riconosca la bravura di Proust nel costruire i personaggi, vividi, ben disegnati, aderenti al modello originale, trova però che manchi qualcosa…
“…e tutti sembrano muoversi come figure in un mondo artificiale dove non si sente vibrare alcun calore umano. So che in questo modo mi metto contro tutti i ‘proustiani’. Comunque io stesso continuo ad essere un ammiratore di Proust sin da quando ho letto ‘Du cotê de chez Swann’ nel 1918 , vale a dire da quando avevo 15 anni…”.

domenica 24 luglio 2011

SIMENON E LE SUE BRASSERIE

Le brasserie di Parigi sono una delle attrative per tutti i turisti del modo. Quella particolare atmosfera quel tipo di locale con clienti abituali e di passaggio, dove si beve un drink, dove si mangia e dove si può giocare a carte... E Simenon lo sapeva. Soprattutto negli anni '30, quando iniziò a pubblicare i Maigret, queste erano già nell'immaginario collettivo dei suoi lettori e non solo. E la riprova di questo appeal, è la presenza della famosa Brasserie Dauphine nelle inchieste del comissario. E' uno dei punti di riferimento, anche se poi nel corso delle indagini Maigret e i suoi uomini si fermano spesso in altre. Ma la Brasserie Dauphine fa molto casa... soprattutto d'inverno, la notte, la mattina all'alba quando un caso costringe tutta la squadra al Quai des Orfévres.
Questa passione per le brasserie però valeva anche per Simenon.
Lui stesso ne ricorda alcune, come quella di Epinal, dove prestò servizio miltare e quella di Caen, la più bella che lui ricordi, di cui ci racconta l'atmosfera.
"...C'è la luce calda dell'interno, e la pioggia che corre sui vetri, la gente che entra e che scuote i vestiti bagnati, le auto che si fermano davanti e di cui per un attimo si percepiscono i fari. Ci sono le famiglie, che si sono bardate per la circostanza, e gli habitué con i visi rossi, che giocano le loro partite a domino e a carte, sempre sullo stesso tavolo e che chiamano i camerieri per nome. E' un mondo, capite, un mondo quasi completo che basta a sé stesso, un mondo in cui mi immergevo con voluttà e che sognavo di non lasciare mai...".

sabato 23 luglio 2011

SIMENON. COME FINISCE UN ROMANZIERE

"Ho preso la decisione di non scrivere più romanzi". La frase apre l'intervista con un giornalista svizzero di un quotidiano di Losanna nel febbraio del 1973.
E' una frase pesante. A quell'epoca Simenon aveva settant'anni e non era poi così vecchio, ma forse era logorato da un vita dedicata allo sforzo creativo.
"Roman terminè. Je rentre dans la vie" scriveva in Quand j'étais vieux. Questo entrare e uscire dall'état de roman, non aveva solo un effetto fisico, (quei cinque chili che perdeva durante la stesura di un romanzo) ma c'era dell'altro. La tensione psichica, quel fare vuoto dentro di sé per far spazio al protagonista del momento, il cercare di entrare nella pelle degli altri... di essere, sia pure per un breve periodo, un'altro. Insomma tutto questo logora. E alla fine?
Alla fine c'è un foglio nella macchina da scrivere con il titolo di un romanzo, Victor che non ci sarà mai. E' la fine de l'ètat de roman, è la fine della "professione romanziere"... ormai sarà un senza-professione.
Simenon racconta  nel '73 in un'altra intervista (a Henry Charles Tauxe - 24 heures - Lausanne) che aveva dovuto farsi curare in ospedale per certe vertigini che lo prendevano e che duravano anche un'ora. Le cure gli ridussero la durata delle vertigini a pochi minuti... "...Solo che per scrivere i miei romanzi bisogna che io sia al cento per cento in piena forma. Soprattutto per il fatto che i miei romanzi diventano man mano più "durs".... Allora ho preso la decisione di fermarmi... Credo di averla presa insieme a quella di sbarazzarmi di questa casa (la villa di Epalinges)...Per me è stata una liberazione...".
Insomma Simenon tira i remi in barca dopo che dal 1923 non aveva mai smesso di scrivere, prima la letteratura alimentare, poi i Maigret e quindi i romanzi. A ritmi forsennati nei primi anni e poi comunque sempre molto prolifico negli anni successivi. Per di più una volta aveva accennato che mentre prima i Maigret erano una sorta di stacco e di evasione tra un romanzo e l'altro, negli ultimi anni erano ormai diventati più "durs", più vicini ai romanzi e quindi richiedevano una fatica analoga.
"...Ora tutto ad un tratto voglio vivere la mia vita, mi sono liberato, mi sento contento e perfettamente sereno. Io diventavo schiavo dei miei personaggi. Era molto faticoso. Ora non permetto loro di impormi la loro presenza. Mantengo le distaze. Sono rientrato nella mia pelle, nella mia vita e non ho più la forza di creare dei personaggi..."
Questa intervista è davvero rivelatrice vale la pena citarne un'altro brano:
"...Nessun rimpianto. Ho consacrato tutta la mia vita al romanzo, ho pubblicato 214 libri, ora provo il bisogno di respirare. Mi occorre sempre più forza per scrivere i miei romanzi: tra la tensione dei primi libri e quella che esigevano gli ultimi, c'è una differenza enorme. Prima di scrivere ogni capitolo ero costretto a prendere un sedativo molto forte. Se avessi continuato mi sarei ucciso nel giro di due o tre anni. Avrei potuto continuare, senz'altro, facendo affidamento sul "mestiere", ma avrei approfittato dei miei lettori e io non lo voglio affatto...".
Questo era Simenon, il romanziere,

venerdì 22 luglio 2011

SIMENON. ETAT DE ROMANCE, ISPIRAZIONE... MA ANCHE DOCUMENTAZIONE

E' ormai, almeno per chi segue questi post, superfluo ricordare che Simenon scriveva in una sorta di trance che lui stesso definiva état de roman. Dichiarava inoltre di non sapere dove e come sarebbe finito il romanzo al momento in cui si metteva alla macchina per scrivere con la prima pagina. Insomma sembrerebbe che l'inconscio e l'ispirazione del momento la facessero da padroni.
D'altra parte sappiamo però che moltissime delle sue opere sono ambientate in luoghi  a lui molto familiari, popolati di personaggi che conosceva bene, come la loro mentalità il loro modo di agire e reagire. Insomma tutte esperienze reali in relazione a posti che aveva abitato, ambienti che aveva frequentato a fatti accaduti anche a lui personalmente. Potrebbe essere definita una sorta di documentazione inconscia. Come Maigret "si impregnava" dell'atmosfere e degli umori circostanti al luogo del delitto, così Simenon, grazie anche ad una formidabile memoria, ricostruiva, anche anni dopo scenari, personaggi e vicende realmente accadute che aveva introiettato e classificato nella sua mente.
E poi alcune volte faceva anche delle ricerche specifiche laddove la propria esperienza non era arrivata. A questo proposito vi vogliamo elencare alcune delle domande che fanno parte di un decalogo di richieste che Simenon inviò ad un medico ospedaliero di Parigi per avere informazioni che gli servivano durante la preparazione di Anneaux de Bicetre.
" • La sveglia mattutina è data da un campana, da una suoneria, etc. o semplicemente dall'arrivo delle infermiere?
• Certi malati vanno alla messa la domenica? Se sì, a che ora?
• Credo di sapere che i vecchi hanno una tuta blu. E' esatto? Come vengono chiamati quegli ospedalizzati che non sono propriamente dei malati?
• C'è un modo più o meno familiare per chiamare i differenti apparecchi di rieducazione? Se c'è, mi picerebbe conoscerlo.
• Ci sono degli altoparlanti nei corridoi per chiamare i medici, le infermiere come in certi ospedali? Insomma ho bisogno di conoscere i rumori che scandiscono le ore per un malato in un letto, rumori che per lui hanno tanta importanza."

giovedì 21 luglio 2011

SIMENON DA' UN PASSATO A MAIGRET... IL SUO

Les memoires de Maigret (1950) possiamo considerarlo un punto di svolta nei rapporti tra Simenon e il suo commissario. Come sappiamo, per quattro anni dal'41 al '45, lo scrittore aveva smesso di scrivere quelle inchieste, semplicemente perche le aveva considerate esaurite, terminato il contratto con Fayard e pubblicati i diciannove titoli previsti per lui si trattava di un'esperienza conclusa. Nel frattempo poi c'era stato il passaggio a Gallimard e alla scrittura dei romans-durs.
Invece con Les memoires de Maigret, iniziamo non solo a conoscere chi è il commissario, ma anche la sua storia, la sua provenienza. Precedentemente solo ne L'Affaire Saint-Fiacre (1932) s'era aperto un squarcio sulle radici del commissario.
E questo è probabilmente la conseguenza del fatto che nell'età matura Simenon prese atto che tra lui e il commissario c'erano più punti di contatto di quanto  fosse cosciente o avesse intenzionalmente voluto.
Anche nella biografia affiorano analogie. Entrambe avevano dovuto interrompere gli studi e rinunciare ad una vocazione per la medicina a causa delle prematura morte dei rispettivi padri. Tutti e due mostravano un debole per gli ambienti della povera gente da cui provenivano e ammiravano quelli che, pur con quelle estrazioni sociali, avevano fatto strada nella vita, ma rimanendo ugualmente persone semplici. Anche l'idea fissa di comprendere gli altri senza giudicarli era prensente in tutti e due. Condividevano la condanna per i pregiudizi sociali, per le barriere tra le classi, per l'etablishment.
Entrambe dubitavano dell'infallibilità della giustizia umana e non a caso Maigret era stato soprannominato il riparatore dei destini e Simenon aveva più volte affermato che nei tribunali, al posto dei giudici, avrebbe visto meglio degli psicoanalisti.
Insomma questa rassomiglianza è comprensibile, ogni scrittore mette qualcosa di sé nel proprio personaggio, anche se Simenon aveva più volte precisato che lui e Maigret avevano ben poco da spartire. Non si può ovviamente parlare di trasposizione, anche perchè non va scordato che Maigret per quanto importante per il suo creatore non esaurisce, come invece è successo ad altri scrittori, l'opera simenoniana, ma ne è solamente un pezzo, significativo, ma solamente un pezzo.

mercoledì 20 luglio 2011

SIMENON E L'ACOLISMO

Nella famosa intervista che i medici e gli psicologi di Mèdicine et Hygiene  fecero a Siemenon nel giugno del 1968, nella sua villa ad Epalinges, furono molti i temi toccati e sui quali lo scrittore non si dimostrò affatto reticente, come dimostrano le sue risposte poi pubblicate sulla rivista in occasione del 25° anno dalla sua fondazione.
Uno degli argomenti trattati fu l'alcolismo, un vizio che, soprattutto in una certa età della sua vita, quella negli Usa, quando Simenon si era risposato con Denyse assunse una gravità tale che decisero insieme alla moglie di smettere di bere.
Anche qui vanno presi in considerazione tre periodi che per comodità chiameremo quello francese, quello americano e quello svizzero.
Tra il '22 e il '44 Simenon visse inseme agli scrittori e agli artisti del tempo, un periodo in cui si riteneva che l'acol fosse una sorta di necessità per chi doveva creare...
"...la mattina quando mi svegliavo, alle sei, mettevo  davanti alla macchina per scrivere una bottiglia di bordeaux e durante il giorno bevevo due o tre bottiglie, scrivendo il mio romanzo. Non ero mai ubriaco. Stavo bene...".
Diciamo che questa era un'abitudine che però si rivolgeva più al vino che non agli alcolici. Tra i venti e i quarant'anni il fisico probabilmente reggeva queste quantità.
La musica però cambia quando si trasferisce negli Stati Uniti dove anche un bevitore come lui trova qualche difficoltà ad adattarsi. Intanto non si parla più di vino, ma di superalcolici e spesso addirittura di cocktail.
"... se bevete un bicchiere meno degli altri, iniziano a guardarvi di traverso.
Il numero di bicchieri sono sei o sette whiskey in un paio d'ore.... Alla fine presi la decisione di non bere più, né fuori né a casa. Certo ogni tanto si facevano delle eccezioni. In realtà ora non sopporto quattro bicchieri di vino, questo mi pregiudica una certa forma di lucidità. Il giorno seguente ad una serata in cui mi sono lasciato andare e ho bevuto qualche bicchiere di vino in più con gli amici, non ho la gola secca, ma mi sento umiliato e dispiaciuto di aver raccontato delle storia con quel tono enfatico...".
E poi verrà, dopo questa intervista, la fase degli anni in Svizzera, dove, anche a causa dello choc dell'alcolismo che fu uno dei motivi (o delle conseguenze?) della progressiva perdita dell'equilibrio psichico della moglie, Simenon non beveva più. Dal '72 poi, lasciata la villa di Epalinges e con Teresa al suo fianco, iniziano gli anni della moderazione e della vita semplice e regolata.

martedì 19 luglio 2011

SIMENON. LA BORGHESIA DALL'ODIO ALLA PENA

Inutile negarlo. Nei romanzi di Simenon, e un po' anche nelle inchieste di Maigret, c'è un filo che lega l'opera simenoniana che é costituito da un disprezzo per la buona borghesia. Questa è un atteggiamento che probabilmente ha le sue radici nella situazione familiare del piccolo Simenon. Come sappiamo, in famiglia non se la passavano bene, il padre Desirè era un modesto impiegato di una società d'assicurazioni e la madre provvedeva a far quadrare il bilancio familiare. Anche perchè i Brulls, la famiglia della madre, era benestante e lei aveva conservato fortemente questo senso del decoro, soprattutto davanti agli altri. E anche per quanto riguardava i figli le scelte seguivano la stessa strada. La scuola di Georges ad esempio. Frequentò prima l'Istituto Petites Frères de Ecoles chrétiennes e poi i Gesuiti. Così entrava a far parte di quella borghesia, dei, come li chiamavano allora, colletti bianchi con cui i Simenon in realtà avevano poco da spartire.
"...Non invidiavo i miei compagni i quali davvero appartenevano alla borghesia, ma ce l'avevo dentro di me con il tipo di insegnamento che ci impartivano - racconta Simenon in uno dei suoi Dictées - Può darsi che sia per questo che negli anni successivi ho odiato la borghesia, che non è altro che l'intenzionale continuazione delle abitudini, dei modi di pensare e di vedere di tempi che io considero definitivamente passati...".
Insomma un odio atavico si potrebbe dire, anche se poi, soprattutto in un certo periodo della sua vita, Simenon visse da borghese, ma, assicura lui stesso, costretto dalle circostanze e dalle situazioni in cui si venne a trovare come scrittore di successo.
E lo stesso gli successe con i figli che cercò di educare come "individui indifferenti alle classi sociali", ma che divennero in definitiva anch'essi dei borghesi. Quindi una sorta di rapporto di amore-odio.
In Quand 'jétais vieux (1960), forse c'è un motivo che spiega come questo odio iniziale si sia prima trasformato in disprezzo e poi in pena.
" Ho avuto una cena la settimana scorsa... e credo di odiarli, O piuttosto li odierei se li credessi capaci di quel machiavelismo di cui si fregiano e se, in fondo proprio perché li frequento da vicino, non sapessi che sono solo dei poveri uomini...".

lunedì 18 luglio 2011

SIMENON. LETTERATURA ALIMENTARE COME APPRENDISTATO

Un po' se lo impose, un po' era fare di necessità virtù. Insomma appena arrivato a Parigi troviamo un Simenon giovanissimo, che nonosante i tre anni di redattore al La Gazétte de Liége, si rendeva conto che avrebbe avuto bisogno di un periodo di apprendistato per diventare uno scrittore e poi un romanziere, come diceva lui.
Ma all'inizio, nonostante avesse svolto per un certo periodo vari lavori, il suo obiettivo era quello di pubblicare qualcosa, sui feuilletton, sui settimanali, nelle collane di racconti o dei romanzi brevi popolari. Ma con i proventi di questa attività avrebbe dovuto sostentare sé e la moglie Tigy.
Era il 1923 ed era arrivato a Parigi da appena un anno quando iniziò a pubblicare le prime novelle sui quotidiani e poi ovunque accettassero le sue proposte o per chiunque gli commissionasse un lavoro.
Era l'epoca della letteratura commerciale, quella su ordinazione, che Simenon a posteriori commentava così "...Chiamo commerciale ogni opera, non solo in letteratura....che è realizzata per questo o quel pubblico, opere per un pubblico dai gusti particolari o per delle collane particolari - continua Simenon a spiegare ne L'age du roman (1943) - Certamente esistono vari livelli anche nella letteratura commerciale, vi si trovano cose di pessima qualità ed altre molto buone. I Libri de Mese ad esmpio sono letteratura commerciale, ma alcuni di essi sono quasi pefetti, quasi opere d'arte. Non del tutto, ma quasi. Succede lo stesso per alcuni testi dei giornali, alcuni sono eccellenti. Ma raramente potranno essere opere d'arte, perchè questa non può essere realizzata con lo scopo di piacere a un specifica categoria di lettori...".
Il punto su cui si soffermava spesso Simenon erano le concessioni. Cioè quel dover trattare determinati temi, o utilizzare uno specifico linguaggio, o trattare certi argomenti in un modo predeterminato perchè quello era quello che voleva o capiva un certo tipo di lettori. E su questo uno scrittore commerciale era un artigiano come un altro. Se veniva ordinato un pesce arrosto, non si poteva servirne uno fritto.
"Non si può scrivere nulla di commerciale senza accettare un certo codice - Simenon si riferiva soprattutto al piano morale - Ad esempio c'è un ottimo programma televisivo. Ed è quello che dà probabilmente i migliori lavori teatrali. I primi due atti sono sempre perfetti. Si ha l'impressione di qualcosa di veramente nuovo e potente, e poi alla fine arriva la concessione. Non sempre un finale felice, ma qualcosa per sistemare tutto secondo la morale o la filosofia..."