martedì 12 marzo 2013

SIMENON. SU "LA STAMPA" I LUOGHI DI MAIGRET... MA DOPO DIECI ANNI

Su La Stampa di oggi viene publicato un corposo articolo che riguarda i luoghi di Parigi, quelli che Simenon utilizzava come scenari delle inchieste del suo commissario. Nel titolo si parla di 120 luoghi della capitale francese che concorrono a costuire quell'atmosfera parigina in bilico tra gli anni '30 e i decenni successivi, ma che hanno impresso nell'immaginario collettivo la fotografia di una città unica, romantica e culla della cultura mondiale del '900.
L'analisi e la rievocazione di quella Parigi però non sono frutto dell'autore dell'articolo, Alberto Mattioli, ma tratte dalla citazione di un prezioso (per i cultori simenoniani) di Michel Carly, Maigret - Traversées de Paris, edito dalla Omnibus nell'aprile del 2003.
Perchè un quotidiano, che di solito insegue l'attualità, gli anniversari e le ricorrenze, abbia voluto a dieci anni dell'uscita del libro tornarci sopra, non viene spiegato  (non ci risulta che sia ora o sia in vista un traduzione italiana di quel libro). Noi siamo comunque felici, che le pagine della cultura di un grande quotidiano se ne occupino, dal momento che, a nostro avviso, ogni occasione è buona per raccontare Simenon attraverso i suoi presonaggi e soprattutto attraverso quello più famoso e popolare.
Vorremmo però fare qualche precisazione in merito alle affermazioni che l'articolista fa a margine della presentazione del libro.
Per esempio Simenon non ha vissuto così a lungo a Parigi. Ma si può dire che l'abbia amata? Certo non quando nel dicembre del '22, scendendo nella fredda e inospitale Gare du Nord si ritrovò in una città che non gli spalancò le braccia e che poi gli fece fare un dura gavetta (e nei primi momenti addirittura la fame). Ma per lui quella città costituiva un trampolino di lancio. Il fermento culturale che vi regnava all'epoca, era l'ambiente giusto per tentare la fortuna. O meglio per mettere in atto il suo piano ben preciso: dedicarsi prima ad un periodo di apprendistato, dandosi da fare con i racconti sui giornali, romanzi brevi commissionati da editori popolari (a quell'epoca la letteratura di quel genere, tra feuilletton e livre de poche, significava vendite di milioni di copie a settimana). Finito quello stadio si sarebbe dedicato alla narrativa semi-letteraria, non più commissionata, ma creata e decisa da lui, con personaggi, vicende e ambientazioni che iniziassero ad avere un loro specifico letterario (saranno poi le inchieste del commissario Maigret). Terza ed ultima fase, quella della letteratura tout-court, quella che lo stesso Simenon avrebbe poi chiamato dei romans-durs. Parigi quindi era soprattutto un mezzo per raggiungere tutto ciò. E la prova è nel fatto che, una volta diventato famoso con il commissario Maigret (1931-1934) e una volta entrato nelle edizioni Gallimard (1933) lo scrittore allentò i legami con Parigi e nel 1938 si trasferì in Vandea, dove rimase fino al '45, anno in cui partì per l'America. Da allora, pur tornandoci di frequente, non abitò più a Parigi e, tornato dagli States, decise di stabilirsi in Svizzera, nei pressi di Losanna.
Altra affermazione di Simenon che si sente ripetere e si vede scritta più volte è quella secondo cui Gino Cervi fosse il miglior attore che avesse interpretato Maigret. Che Simenon abbia apprezzato l'interpretazione dell'attore italiano non c'è dubbio, ma il Maigret che aveva nel cuore e nella testa era quello del suo amico Jean Gabin. Certo, possiamo dire che uno è la faccia televisiva e l'altro quella cinematografica. Ma rimangono famose le parole di Simenon dopo che per tre volte l'attore francese aveva interpretato il commissario sul grande schermo "... adesso ogni volta che mi siedo a scrivere un Maigret me lo immagino con la faccia di Gabin... non vorrei che prima o poi mi venisse a chiedere i diritti di immagine!...".
Un'ultimissima e piccola precisazione. E' vero, gli esterni degli sceneggiati Rai non vennero girati a Parigi (e soprattuto oggi ce se ne accorge subito). Ma la sigla invece sì. 

lunedì 11 marzo 2013

SIMENON. LE CLASSIFICHE INIZIANO DA UN DIECI E LODE

Già, dieci e lode. Un traguardo da scuola elementare, dirà qualcuno. Un traguardo irrangiungibile e irragiunto ricorderà qualcun altro. Il voto di cui parliamo oggi è quello che, nella sua rubrica settimanale La Pagella, Antonio d'Orrico ha assegnato ad un libro in classifica su La Lettura del Corriere della Sera. Il romanzo in oggetto è Le singorine di Concarneau e il voto, come abbiamo detto, è stato il massimo possibile.
Il titolo dell'articolo è esemplicativo. "Semplicità: la prima legge del racconto" e l'incipit è altrettanto esplicito: "...La perfezione è di questo mondo ed è di questo breve romanzo di Georges Simenon...".
E conclude D'Orrico "... La prima legge della narrativa di Georges Simenon, quella principale, quella da cui discendono tutte le altre, dice che se piove basta scrivere che piove: non che il cielo piange o che scendono gocce grandi o piccole. Basta dire semplicemente che piove. Basta dire che Georges Simenon semplicente scrive ed è la semplicà della perfezione. Ma non c'è cosa più difficile dell'essere semplici...".
Chapeau D'Orrico. Siamo perfettamente d'accordo. Non c'è bisogno di alcun commento.
Nella classifica proposta ieri da La Lettura, Simenon con le sue signorine è dato al settimo posto della "Narrativa straniera".
Sabato anche La Stampa lo dava alla settima posizione dei romanzi oltreconfine.
Per i titoli venduti  sul web la classifica di I.B.S assegna a Le signorine di Concarneau il 16° posto, mentre Amazon il 33° nella sezione "Bestseller".

sabato 9 marzo 2013

SIMENON. LE PENTOLE DELLA SIGNORA JUSTINE


Questa settimana la short-story di sabato viene presentata da Paolo Secondini, un nostro affezionato e attento amico, che questa volta ha deciso di volerla far precedere da una dedica: A Murielle. Sì proprio Murielle Wenger, la nostra specialista (tra l'altro anche attachées del Bureau Simenon-Simenon). Un tributo alla sua competenza? Una dedica all'indomani della "Festa della Donna"? Sicuramente un riconscimento alla sua "autorevolezza" maigrettiana e simenoniana.
Ecco a voi quindi il commissario Legros, almeno qui ben più espansivo del taciturno Maigret...




A Murielle 

LE PENTOLE DELLA SIGNORA JUSTINE
di Paolo Secondini


Le otto del mattino.
«Buona giornata, Isidore. Stai attento, mi raccomando… Bada che non t’accada qualcosa di…»
«Cosa vuoi che mi accada, Justine? Ho mai commesso imprudenze in vita mia?»
«No, no… non dico questo… Ma ogni volta che esci di casa, per recarti al Quai des Orfèvres, io… io…»
«Sta’ tranquilla, mia cara,» rispose, sorridendo, suo marito. «Non farò un passo, un movimento, se prima non ripenso, almeno due volte, alle tue raccomandazioni.» Si batté la mano sul petto e ve la trattenne. «Lo prometto solennemente.»
«Sono contenta,» concluse la signora Justine, e baciò il marito con molta dolcezza.
Si trovavano sul pianerottolo del loro modesto appartamento in Rue de la Roquette.
Isidore scese le scale canticchiando. Era allegro, quella mattina, per nessuna ragione particolare, forse perché la vita è semplicemente meravigliosa.
La signora Justine chiuse pian piano la porta e, a passi decisi, si diresse verso la cucina. Quando fu sull’uscio, si fermò un momento a osservare i fornelli, l’acquaio, il tavolo, le pentole di rame appese in bell’ordine alla parete.
Era, quello, il suo luogo abituale di lavoro, dove trascorreva gran parte del giorno a impastare la farina, a capare legumi e verdure, soprattutto a preparare, per quel golosone del marito, raffinati e squisiti manicaretti.
Entrando in cucina, si sentì soddisfatta di se stessa, come tale doveva sentirsi Isidore nel mettere piede, ogni volta, nel suo ufficio al Quai des Orfèvres.
In fondo, pensava Justine, anche la sua attività di massaia esigeva continuamente le stesse premure che suo marito, il commissario Legros della Polizia Giudiziaria, profondeva nelle indagini.
Non indagava anche lei, nel quartiere, per scoprire quale pizzicagnolo offrisse il prosciutto migliore a buon mercato? O chi, ogni mattina, disponesse sopra il bancone soltanto le uova di giornata? O chi fosse più onesto nel pesare la carne, la frutta o gli ortaggi? O chi vendesse olio genuino di oliva anziché la solita, pessima mistificazione?
Piccole cose, piccoli accorgimenti, piccole attenzioni, di cui la signora Justine andava fiera. E quale soddisfazione per lei quando il marito, a tavola, le diceva:
«La bistecca di vitello, quest’oggi, è molto tenera.»
Oppure:
«I tortellini nel brodo di gallina… quelli acquistati da Nicola l’italiano… sono stati squisiti.»
O anche:
 «Ho mangiato una pera matura al punto giusto. Brava! Hai saputo sceglierle bene… Sono orgoglioso di te, Justine.»
«Ma… ma…» rispondeva sua moglie, come sempre confusa da quei complimenti, «non credo abbia fatto qualcosa di speciale.»
«Oh sì, invece! Sì, sì!» esclamava il marito e si chinava in avanti, il sorriso sulle labbra, a baciarle la mano.
E la brava signora Justine osservava quel gesto  col cuore che traboccava di gioia.
Era davvero felice in quei momenti, soprattutto perché sentiva che era felice il suo Isidore, per quel che di semplice e buono sapeva offrirgli.

venerdì 8 marzo 2013

SIMENON SI SERVIVA DI GOSTH WRITER?

Tutto nasce dalle ottanta pagine al giorno che era capace di scrivere. Tutto nasce della media di cinque romanzi all'anno che è riuscito a tenere per oltre quarant'anni. Tutto nasce dagli oltre quattrocento titoli che costituiscono il corpus della sua opera dai romanzi popolari ai racconti, dai Maigret ai romans-durs.
E, se la vogliamo dirla tutta, tutto nasce dall'invidia.
Già perchè in ballo non c'è solo una rilevante quantità di titoli, ma anche un qualità media piuttosto alta (pure nel periodo della letteratura popolare ci sono opere godibili).
Stiamo parlando dell'accusa (o per alcuni addirittura l'assodata convinzione) che Simenon si servisse di gosth writer che gli permettessero una produzione così ricca e ad un ritmo così sostenuto.
Conseguenza di questo era una critica "ufficiale", che si era pressoché disinteressata alla sua produzione nel periodo della letteratura popolare. Periodo per altro contraddistinto da quasi un ventina di pseudonimi, cosa che quindi,  non solo non lo rendeva ben identificabile come singolo autore, ma dava adito al sospetto che dietro a tutti quei nomi l'autore non fosse sempre lo stesso.
Ma l'accusa di essere un "industriale" della letteratura e non un letterato vero e proprio, magari con degli impiegati della letteratura alle sue dipendenze, prese corpo quando Simenon passò ai Maigret e cioè a quella che lui definiva semi-letteratura. Lì venne a galla il suo passato di estensore di testi commissionati, romanzi brevi o racconti, da editori di romanzi popolari come Tallandier, Ferenczi, Prima, Fayard... e  si poneva sempre l'accento sulla velocità di scrittura: in una decina d'anni circa duecento titoli! Questo non piaceva alla critica. Come non piacque che, passato ai Maigret e con il suo vero nome, Simenon sfornasse nel primo anno della serie poliziesca ben nove volumi (considerando che il lancio avvenne a fine febbraio, quasi un libro al mese). Poteva essere quella letteratura degna dell'attenzione benevola dei critici più paludati? No. Ne erano piene le pagine dei settimanali, da quelli femminili a quelli d'attualità, le cronache mondane dei quotidiani (soprattutto per il modo in cui era stato lanciato).
E questo inarcare il ciglio da parte della critica letteraria, si registra soprattutto all'inizio, vuoi perchè si trattava di letteratura di genere, vuoi per il ritmo delle uscite, troppo più simili a quelle dei periodici, che non a quelle delle opere dei grandi scrittori.
Da qui le illazioni e le voci che Simenon si servisse di quelli che oggi chiamiamo gosth-writers.
Ma del fatto non ce n'è traccia in nessuna biografia, in alcuna testimonianza di chi ha vissuto con lui e di chi lo conosceva bene. Non ne fa cenno nemmeno chi aveva motivi di vendetta, come ad esempio la seconda moglie Denyse, che quando uscì dalla vita di Simenon ne disse (e ne scrisse) di tutti i colori, mischiando verità e menzogne... Eppure l'accusa di essersi servito di gosth writers non venne mai fuori.
Ma se non bastasse l'assenza di prove, c'è da considerare la psicologia di Simenon. Per lui la letteratura era tutto. Per riuscire in questa, aveva lasciato a diciotto anni Liegi, un posto da giornalista ben remunerato con una promettente carriera, la promessa sposa Régine, la casa materna... A Parigi fece a fame, poi si adattò a fare modesti lavori di segreteria, quindi iniziò con umilità a scrivere qualsiasi cosa gli venisse chiesto, dell'argomento e della lunghezza commissionati. E lui, sentendosi come un qualunque artigiano, finiva il più presto possibile ed era sempre puntuale a consegnare la sua "merce". Un periodo massacrante in cui non diceva mai di no a nessuno e arrivava a scrivere le famose ottanta pagine al giorno.
Questo atteggiamento rispetto alla scrittura e quel programma che aveva così chiaro in mente fin da quando pose piede a Parigi (letteratura popolare, poi la semi-letteratura ed infine i romans-durs), sono le migliori smentite al fatto che Simenon abbia fatto ricorso a qualche gosth-writer. Ve lo immaginate come sarebbe stato sapendo che i destini dei suoi protagonisti e le inchieste del suo amato commissario erano nelle mani e dipendevano dalla penna di qualcun'altro?
No. Noi non crediamo a questa favola dei gosth writer.
Ma perchè proprio oggi questo post così battagliero proprio su questo argomento?
Perché ci è capitato sotto mano un vecchio post del giornalista Luca Telese (ultimamente fondatore e direttore del quotidiano "Pubblico", pubblicato per circa quattro mesi) in cui parlando del fenomeno (?) Fabio Volo, scriveva a proposito di gosth-writers "... li aveva anche Simenon, ma nessuno lo sminuisce per questo, anche sceglierseli è un talento...".
Così, en passant, dandolo per scontato... Anche se è roba vecchia (fine dicembre 2011) non potevamo lasciarla passare... così.

mercoledì 6 marzo 2013

SIMENON, MAIGRET... DAL PRIMO ALL'ULTIMO

"C.I.P.C a Sureté di Parigi.
Xvzust Cracovia vimontra m ghhs triv psot uv Pietro il Lettone Brema vs Tyz btolem.
Il commissario Maigret, della prima squadra mobile, alzò la testa, ebbe l'impressione che il ronzio della stufa di ghisa sistemata in mezzo al suo ufficio e collegata al soffitto con un grosso tubo nero, si indebolisse Respinse il telegramma, si alzò pesantemente, regolò la chiavetta e gettò nel fuoco tre palate di carbone...".

"Maigret giocava nel raggio di sole tiepido di marzo. Non giocava con i cubi, come quando era bambino, ma con due pipe. Ce n'erano sempre cinque o sei sul suo tavolo e ogni volta che ne riempiva una, la sceglieva con cura secondo il suo umore...".

Tra questi due incipit passano quasi 43 anni. Cioè il tempo trascorso tra il primo e l'ultimo Maigret. Di mezzo più di un centinaio tra romanzi e racconti.
Il primo è di Pietr-le-Letton iniziato a scrivere nel settembre del 1929.
Il secondo è di Maigret et M. Charles scritto nel febbraio del 1972, l'ultimo romanzo in assoluto di Simenon.
Ma che differenze ci sono tra i due Maigret, quello dell'esordio e quello che chiude l'arco di tutta la serie dopo più di quarant'anni?
L'esordiente commissario ha a che fare con un truffatore che viene dall'Est.
Lo smaliziato Maigret del '72 si trova alle prese con un caso che tutto parigino, che si snoda tra locali notturni, entraineuses, tradimenti e strane relazioni tra moglie e marito.
C'è una frase che nella prima inchiesta che inquadra subito il rapporto tra il commissario e certi ambienti di lusso
"... il Majestic non lo digeriva. Lui si ostinava a formare una grande macchia nera e immobile tra le dorature, le luci, l'adirivieni degli abiti da sera, delle pellicce, delle figure profumate e scintillanti...". La sua dura scorza, quella che si materializzava quando si trovava in una situazione di disagio.
In Maigret et M. Charles, il commissario dà una ancor più forte dimostrazione di impermeabilità alle lusinghe, e questa volta a proposito della sua carriera. Infatti rifiuta il posto di Direttore della Polizia Giudiziaria, cosa che era stata discussa addirittura con il ministro dell'interno. Lui voleva restare alla sua Brigata Criminale. Niente incarichi che sconfinavano nella politica, ma ben ancorato al suo ruolo di investigatore, magari sul campo. Diventare direttore della P.G. voleva dire aver a che fare con funzionari e direttori  del ministero degli interni. Un ambiente che gli era estraneo quanto le dorature e le preziosità del Majestic.
Da questo punto di vista, quarant'anni non sembrano aver inciso sul suo carattere.
La scomparsa del fantomatico M. Charles, altri non era se non il famoso notaio Gérard Sabin-Levesque, che nella sua altra vita, quella notturna, era meno rispettabile e molto sensibile al fascino delle entraineuses, al punto di sparire ogni tanto con una di loro per qualche giorno. Maigret deve così girare per i locali parigini dove si trovano quelle ragazze e dopo una notte passata perigrinando da uno all'altro alla fine "... aveva bisogno di aria, perché si soffocava in quei locali e i profumi di cui erano impregnate le donne lo nauseavano...".
Insomma niente lussi, no alle donne facili, nessuna ambizione di fare carriera.
Sia nel primo che nell'ultimo troviamo un Maigret che conferma quel suo essere normale, un semplice funzionario, cui piace il proprio lavoro, che mal sopporta il bel mondo che si tratti della buona società o delle alte sfere istituzionali che poi non di rado avevano molti punti di contatto.
In Pietr-le-Letton troviamo questi personaggi dell'est-europeo che nella sua infanzia Simenon aveva conosciuto bene. Diversi universitari cui la madre Henriette affittava le stanze per quadrare il magro bilancio familiare, venivano proprio dell'est.
Nell'inchiesta su M. Charles, Maigret mette in piazza un matrimonio che dura da quindici anni (lui era stato sposato con Denyse per quattordici) e lei, Nathalie è affetta da alcolismo che va sempre peggiorando, cosa che le crea grossi problemi fisici e psichici. Anche qui come non pensare alla deriva in cui si trovò la seconda moglie dello scrittore?
Nel primo Maigret, Simenon ci catapulta in quella provincia che molto spazio avrà nei suoi romanzi. Scrive a proposito della stazione di Fécamp, La Bréauté "... il caffé della stazione era male illuminato, coi muri sporchi, un banco dove ammuffivano alcuni dolci secchi.... Fécamp! Un'odore compatto di merluzzo e di aringa. Cumuli di barili. Sartiame dietro le locomotive. Una sirena che ululava da qualche parte...". Secco. Conciso. Completo. Siamo in quell'atmosfera della stazione di un paesino che vive di pesca. Da queste poche parole si indovina una realtà povera, animata da gente che fà un lavoro duro, che non ha tempo nè denaro per le futilità.
L'alcol è un'altro filo che appare spesso nelle storie simenoniane. Qui tra il Lettone e Nathalie, la moglie di M. Charles, troviamo scene analoghe. iniziamo dal primo.
"... Maigret non aveva mai visto un'ubriachezza così fulminante. E' vero che non aveva mai visto un  uomo bere d'un fiato un gran bicchiere pieno di whisky, riempirlo, vuotarlo di nuovo, riempirlo una terza volta, scuotere la bottiglia e bere fino all'ultimo goccio l'acool a sessanta gradi... L'effetto fu impressionante...".
E poi passiamo al secondo.
"... Maigret aveva visto raramente una donna in tale stato di angoscia e di smarrimento. Claire sapeva perché l'avevano chiamata, perché portava un vassoio con una bottiglia di cognac, un bicchiere e un pacchetto di sigarette... Riempì il bicchiere e lo porse alla sua padrona che per poco non lo rovesciò...
- Non gliene offro vero? lei non è ancora alcolizzato...".
Ma anche qui troviamo soprattutto nel secondo, un riflesso della vita di Simenon che ebbe qualche problema con l'alcol, ma riuscì a fermarsi in tempo, invece Denyse non ci riuscì e, complice anche un precario equilibrio psichico, peggiorò sempre più.
Pietr-le-Letton è più denso di colpi di scena, diciamo che all'inizio l'azione ha una certa prevalenza. Maigret e M. Charles, vede il commissario cercare di far luce tra rapporti sentimentali, d'interesse, tra debolezze ed egoismi perchè è quella la strada che lo porta a spiegare il caso.

martedì 5 marzo 2013

SIMENON: L'UOMO NUDO HA LA PELLE NERA

Non è tutto esatto, qualche volta i fatti e le vicende si sovrappongono, qualche volta si confondono. Ma il grande pregio di Mémoires intimes, non è nemmeno letterario, ma il fatto di costituire un affresco in cui tutte le emozioni, i ricordi, le esperienze di quasi ottant'anni si mischiano, si integrano e si combinano. Risultato? Un'idea di Simenon. O meglio l'idea che Simenon aveva di sè e degli altri e le proprie convinzioni rispetto alla vita. Grande attenzione infatti viene riservata al versante familiare, i figli, Tigy, e Denyse soprattutto. Ma ci si trova poi moltissime vicende della propria vita e, se si riesce a non perdersi tra tutte le singole storie e ognuno dei fatti narrati e si riesce ad allontanarsi dal particolare, allora si percepisce il mondo simenoniano nella sua interezza e nelle sua profondità. Il suo valore è anche quello di essere stato scritto da un uomo di settantotto anni, quando la sua avventura letteraria si era ormai conclusa da qualche anno, sgombro da velleità e da aspirazioni.
Ad esempio il suo cercare il famoso uomo nudo trova una bella pagina nelle memorie simenoniane.
"...se devo essere sincero, la mia preferenza va all'uomo dalla pelle nera e lucente che ho fatto in tempo a incontrare in mezzo alla sua tribù, nel cuore della savana o della foresta equatoriale, e che viveva ancora lontano dai bianchi, senza nepppure conoscere la parola denaro...".
Ecco, questa ultima frase fà capire, non solo come Simenon concepisse "l'uomo nudo", ma anche quali valori percepiva come negativi nella società. Per uno come lui che di denaro ne aveva maneggiato come pochi, è una singolare affermazione. Torniamo a ricordare che le Mémoires sono scritte da un uomo anziano, che valuta e rivaluta le vicende e le convinzioni. Il Simenon rampante dei primi anni trenta che conquistava fama e successo con i primi Maigret e inziava i suoi romans-durs era assai diverso da quello dopo il '72, quando aveva non solo smesso di scrivere, ma progressivamente chiuso nel suo piccolo mondo quotidiano a fianco di Teresa. E continua a spiegare perchè la sua preferenza va all'uomo di colore.
"... era nudo, dormiva in una capanna  (chi lo desiderava se la tirava su, in un giorno, sulla terra di tutti), e al mattino, poco prima dell'alba, munito di un piccolo arco e di piccole frecce molto appuntite si allontanava.... mentre la sua o le sue donne, nude come lui e come lui con gli occhi lucenti al sole, circondate da un nugolo di marmocchi dagli occhi grandi, pestavano il miglio in mortai  scavati direttamente nel legno con un pezzo accuminato di selce...".
Certo, oggi sembra un po' idilliaca questa ricostruzione del selvaggio felice, ma rispecchia a nostro avviso, l'ideale di vita dello scrittore negli anni '80, quando riscopriva, a suo dire, la felicità nelle piccole cose e la sottrazione piuttosto che l'aggiunta delle cose veramente importanti per vivere. Convinto, dopo averle sperimentate quasi tutte, che le sovrastrutture della cultura occidentale non miglioravano la qualità della vita e il consumismo non faceva felice le persone.
"... In quell'uomo, in quelle donne ho scoperto una dignità umana che non ho incontrato da nessun'altra parte. Li si vedeva e li si sentiva appena, immersi com'erano nella natura, confusi con essa, in armonia con i suoi ritmi...".