venerdì 27 dicembre 2019

SIMENON SIMENON. L’INFERNO A EPALINGES ?

Sulle relazioni che possono essere stabilite tra i romanzi di Simenon e la sua biografia


SIMENON SIMENON. L’ENFER A EPALINGES ?
A propos des rapports qu’on peut établir entre les romans de Simenon et sa biographie
SIMENON SIMENON. HELL IN EPALINGES?
About the relationships that can be established between Simenon's novels and his biography





Nella sterminata produzione letteraria di Simenon, “Mémoires intimes” occupa una posizione a parte. Non perché sia il suo miglior lavoro – non lo è – e neppure perché rappresenti l’uomo Simenon nella sua sincerità. È un’autobiografia monumentale di oltre settecento pagine nell’edizione originale, non dettata come le ultime opere ma scritta di suo pugno a matita, con la caratteristica grafia minuta, su quaderni scolastici.
Per realizzarla Simenon impiega buona parte del 1980: sono passati quasi due anni dal suicidio della figlia Marie-Jo, e il dolore e i sensi di colpa per questa tragedia sono diventati compagni quotidiani. Nell’edizione uscita nel 1981 per i tipi della “Presses de la cité”, la copertina riporta la foto in bianco e nero di Simenon seduto su di una panchina, all’ombra del maestoso cedro del Libano presente nel giardino della sua ultima residenza di Avenue des Figuiers 12, a Losanna. Il luogo non è casuale: qui ha sparso le ceneri della figlia, e qui – ha espresso volontà – saranno sparse anche le sue.
Eppure per me è “il libro” fondamentale di e su Simenon, perché svela i semplici meccanismi con cui scriveva le sue opere. Certo, Simenon era un grande osservatore e un altrettanto grande conoscitore dell’animo umano: ma qui racconta come scrivesse di sé e di quel che gli accadeva. Nell’interessante serie radiofonica di Radio3 “Pantheon”, recentemente dedicata alla figura dello scrittore, una puntata propone un’intervista al figlio John. Che racconta come il padre rilegasse, appositamente per lui, una copia di ciascuno dei libri che scriveva. John, allora quindicenne, non riusciva a leggerli, poiché vi ritrovava tutti i fatti e gli avvenimenti accaduti in famiglia, e gli sembrava insopportabile che la loro vita venisse svelata al pubblico.
Con questa nuova chiave interpretativa, la lettura dei “romans durs” e dei Maigret assume, per me, una nuova – e affascinante - prospettiva. Ho appena terminato la rilettura di “Maigret hésite” (Maigret esita), scritto nel 1968. Trama efficace: il commissario riceve una lettera anonima che gli preannuncia un delitto. Ne comprende l’autenticità e riesce a risalire all’indirizzo del mittente. Questo lo porterà a indagare nella famiglia dell’avvocato Emile Parendon, avenue de Marigny, Parigi.
“Lo stabile in cui abitava Parendon era grande, solido, costruito per sfidare i secoli (…) Il maggiordomo gli prese il cappello, lo introdusse in una biblioteca come il commissario non ne aveva mai viste”. Maigret entra in un appartamento vastissimo, dove “i locali sono talmente grandi che può accadere qualche cosa a un’estremità dell’appartamento senza che all’altra estremità ce se n’accorga”. Un appartamento dove, tra abitanti e personale di servizio, vanno e vengono undici persone. E nel cortile un autista lava una Rolls Royce.
Nel leggere, per singoli apporti, la descrizione di questo ambiente enorme, ovattato dalla moquette, in cui – si scoprirà – i coniugi Parendon conducono vite materialmente separate, ho visto la villa che Simenon si fece costruire, su suo disegno architettonico, in Chemin des Orchez 8, Epalinges, tra il 1962 e il 1963. Ventisei stanze, undici domestici, due autisti, sei garage (di cui uno per la Rolls), una serra, una cucina doppia, un ufficio con tre segretarie, un’infermeria, pareti divisorie insonorizzate, moquette rossa dovunque, una dotazione tecnologica che sarebbe ancor oggi all’avanguardia. Vicina, una piscina coperta da venti metri. Fuori, venticinquemila metri quadrati di giardino e vista sul monte Bianco.
La villa celebra la megalomania della moglie Denyse Oimet, ma anche i suoi sdoppiamenti di personalità, la crudeltà nei confronti della figlia, i sempre più gravi disturbi psichiatrici che la obbligano a frequenti ricoveri. Il “bunker” – com’era chiamato dai vicini di casa per la sua bruttezza – finisce per rinchiudere la vita della famiglia Simenon in un inferno.
Nel romanzo, la signora Parendon ha evidenti somiglianze con Denyse. E i figli Bambi e Gus ricordano molto Marie Jo e Pierre, due dei figli avuti da Denyse.
Il delitto avviene, e la vittima è la segretaria di Parendon, la signorina Vague, con cui lo stesso aveva una relazione. “Ci capita di fare all’amore, ma sempre di sfuggita, così che il termine andare a letto non è appropriato. (…) In quanto alla signora (…) non si sa mai se è fuori o in casa. Lei avrà notato che tutti i corridoi e la maggior parte delle stanze sono guarniti di moquette”. Sappiamo come Simenon avesse rapporti fisici con tutte le donne del suo entourage lavorativo e domestico. “La signorina Vague difendeva selvaggiamente il suo principale, col quale tuttavia riusciva a fare l’amore solo di nascosto, sull’angolo della scrivania”.
Lo scrittore rappresenta un’atmosfera sospesa di paura, tensione. A Epalinges non si doveva respirare un’aria diversa. «Questa biblioteca ne è piena, di psichiatri» confida Emile Parendon al commissario. Nella biblioteca di Simenon accadeva l’identica cosa, probabilmente per capire meglio i comportamenti della moglie e come regolarsi.
Simenon affida a Maigret quest’indagine particolare e complessa in casa Parendon e, specularmente, in casa Simenon. Ne traccia la componente materica riferendosi alla villa di Chemin des Orchez, e vi tratteggia una componente familiare incredibilmente rassomigliante alla propria.
La grande residenza di Epalinges sarà abbandonata nel 1972 per un appartamento all’ottavo piano di Avenue de Cour, a Losanna. Dalle sue finestre vedrà la casetta rosa giù in basso, in avenue des Figuiers.
Ignorava che sarebbe divenuta la sua ultima dimora.


Paolo Casadio

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