Siamo a domenica e tiriamo un po' di somme. Ormai, a diverse settimane delle uscite dei due più recenti libri di Simenon, facciamo il punto dando una maggiore attenzione ai libri venduti su internet in questa settimana. Per Simenon non parliamo ancora di e book (a quando Adelphi?), ma di volumi cartacei venduti on-line, una modalità sempre più praticata anche nel nostro paese.
Facciamo eccezione per l'accurata panoramica che ci fornisce ogni sabato La Stampa con il suo inserto TuttoLibri in cui troviamo il romanzo L'assassino al 10° posto della classifica generale e al 6° della Narrativa straniera. Maigret e l'uomo solitario, lascia invece la prima posizione per il 2°posto.
Su IBS (Internet Book Shop) invece troviamo il romanzo di Simenon molto più su, al 5° posto, e l'inchiesta di Maigret più giù, al 21° posto ma in recupero (nella precedente occupava la 32a posizione). Rimaniamo su internet, questa volta con Amazon, il colosso internazionale della vendita on-line dei libri. Anche qui L'assassino lo troviamo al 5° posto mentre Maigret e l'uomo solitario è molto indietro al 38°.
Terminiamo questa succinta rassegna con un marchio storico di librerie, Feltrinelli, anch'esso ormai sul web e con la sua brava classifica di libri venduti on-line.
Anche in questo caso il romanzo di Simenon tiene saldamente la 5° posizione, quasi inseguito dall'indagine del commissario Maigret che ritroviamo al 7° posto.
• Integrazione • 31/07/2011 - Grazie alle classifiche del Corriere della Sera, pubblicate in data odierna possiamo aggiungere che L'assassino è insediato al 10° posto della Top Ten e al 6° della Narrativa Straniera.
domenica 31 luglio 2011
sabato 30 luglio 2011
SIMENON. QUANDO JEAN GABIN DEBUTTO' COME MAIGRET
Siamo nel 1955 e il produttore cinematografico francese Jean Pierre Guibert riesce ad ottenere l'opzione su tutti i titoli della serie di Maigret e in particolare i diritti su due titoli: Maigret tend un piége (1955) e L'affaire Saint-Fiacre (1932). Per la popolarità di cui godeva Simenon in quel momento, e in particolare il suo commissario, ma sopratutto per la parsimonia con cui il romanziere concedeva i diritti cinematografici delle sue opere, era davvero un bel colpo. L'interpretazione di Maigret fu allora proposta a Jean Gabin, a quel tempo anche lui molto popolare e anche lui non certo facile a scegliere le interpretazioni.
In questo caso giocarono a favore dell'attore vari elementi. Ad esempio che i precedenti Maigret sul grande schermo fossero stati attori di un certo livello: da Pierre Renoir a Charles Laughton, da Harry Baur ad Albert Préjan. Altro fatto che fece accettare all'attore quella parte fu la direzione del regista Jean Delannoy, con cui aveva già lavorato e con cui si era trovato molto bene. Ma sorprattutto giocò a favore il fatto che fosse un film tratto da un opera di Simenon che per Gabin era un autore di culto. E d'altronde dello scrittore aveva già portato sullo schermo La Marie du Port (1950) per la regia di Marcel Carné, La vérité sur Bèbé Donge (1940) diretto da Maurice Aubergé, Le sang à la tete con la regia di Gilles Grangier e Michel Audiard da Les Fils Cardinaud (1941).
Insomma l'esordio di Gabin come commissario Maigret nasceva sotto i migliori auspici. L'attore, molto coinvolto dalla parte, volle scegliere personalmente gli abiti di scena, ispirandosi ai ricordi di suo nonno, alla sua aria di uomo onesto e perbene che portava cintura e bretelle insieme. E così fu vestito il Maigret-Gabin. Inoltre Gabin era già nella vita un fumatore di pipa (amava un tabacco biondo e aromatizzato prodotto in Svizzera) e questo era un altro elemento a favore. Anche se il Maigret tend un piége uscì nel '57, e Maigret et l'affaire Saint-Fiacre nel '59 i due film furono girati contemporaneamente. Il film, in cui Gabin era affiancato da Annie Girardot, fu un grande successo e registrò in quattro settimane a Parigi oltre 246.000 spettatori. Cifra che non può ovviamente essere paragonate a quelle odierne, quando un film esce in almeno cinquanta sale contemporaneamente, tra centro-città e periferie parigine. A metà degli anni cinquanta una pellicola usciva a Parigi in tre, massimo quattro sale. Questo significa che un film che oltrepassava i duecentomila spettatori era già un gran successo. La "liason" tra Gabin e Simenon fu non solo professionale (anche il romanziere aveva una stima particolare per l'attore), si trattò anche di un rapporto di amicizia personale. Risultato che i film tratti dalle opere simenoniane che Gabin interpretò sullo schermo furono una decina (vedi il post del 29 dicembre 2010 Simenon e Jean Gabin) e valse all'attore francese l'appellativo di interprete siemenoniano per eccellenza.
In questo caso giocarono a favore dell'attore vari elementi. Ad esempio che i precedenti Maigret sul grande schermo fossero stati attori di un certo livello: da Pierre Renoir a Charles Laughton, da Harry Baur ad Albert Préjan. Altro fatto che fece accettare all'attore quella parte fu la direzione del regista Jean Delannoy, con cui aveva già lavorato e con cui si era trovato molto bene. Ma sorprattutto giocò a favore il fatto che fosse un film tratto da un opera di Simenon che per Gabin era un autore di culto. E d'altronde dello scrittore aveva già portato sullo schermo La Marie du Port (1950) per la regia di Marcel Carné, La vérité sur Bèbé Donge (1940) diretto da Maurice Aubergé, Le sang à la tete con la regia di Gilles Grangier e Michel Audiard da Les Fils Cardinaud (1941).
Insomma l'esordio di Gabin come commissario Maigret nasceva sotto i migliori auspici. L'attore, molto coinvolto dalla parte, volle scegliere personalmente gli abiti di scena, ispirandosi ai ricordi di suo nonno, alla sua aria di uomo onesto e perbene che portava cintura e bretelle insieme. E così fu vestito il Maigret-Gabin. Inoltre Gabin era già nella vita un fumatore di pipa (amava un tabacco biondo e aromatizzato prodotto in Svizzera) e questo era un altro elemento a favore. Anche se il Maigret tend un piége uscì nel '57, e Maigret et l'affaire Saint-Fiacre nel '59 i due film furono girati contemporaneamente. Il film, in cui Gabin era affiancato da Annie Girardot, fu un grande successo e registrò in quattro settimane a Parigi oltre 246.000 spettatori. Cifra che non può ovviamente essere paragonate a quelle odierne, quando un film esce in almeno cinquanta sale contemporaneamente, tra centro-città e periferie parigine. A metà degli anni cinquanta una pellicola usciva a Parigi in tre, massimo quattro sale. Questo significa che un film che oltrepassava i duecentomila spettatori era già un gran successo. La "liason" tra Gabin e Simenon fu non solo professionale (anche il romanziere aveva una stima particolare per l'attore), si trattò anche di un rapporto di amicizia personale. Risultato che i film tratti dalle opere simenoniane che Gabin interpretò sullo schermo furono una decina (vedi il post del 29 dicembre 2010 Simenon e Jean Gabin) e valse all'attore francese l'appellativo di interprete siemenoniano per eccellenza.
venerdì 29 luglio 2011
SIMENON. QUANDO MAIGRET INDAGA E AGGIUSTA I DESTINI
Era luglio, precisamente di ottanta anni fa' e Simenon a bordo del suo Ostrogoth aveva raggiunto Morsang navigando sull'Orge, (un affluente della Senna, nell'Ile de France ad una ventina di chilometri da Parigi). Qui si ferma per qualche tempo, più o meno quello necessario a scrivere la sua nona inchiesta: Maigret au rendez vous des Terre-Neuvas.
Questo libro è importante non solo perchè il personaggio si delinea più chiaramente, ma anche perché fà la sua comparsa una di quelle che sarà le una delle sue caratteristiche peculiari: "comprendere e non giudicare". E in conseguenza a questa sua convinzione gli verrà affidato il soprannome di riparatore di destini. Il commissario infatti, spesso nelle inchieste seguenti, quando potrà e riterrà che legge e giustizia non coincidano, decide di non agire o di dare un piccolo aiuto in modo che le cose si aggiustino, appunto, secondo giustizia. Certo qui si apre l'interminabile dibattito se un poliziotto possa o no interferire nel ruolo di giudicare che spetta alla magistratura. Ma questa è un'altra storia e questo non è il luogo adeguato per aprire una tale discussione. Comunque per Maigret comprendere vuol dire conoscere, andare a fondo delle motivazioni umane, capire le mentalità, i significati più profondi di certe azioni e quindi talvolta giustificare certe situazioni.
Questa è una della differenze su cui, rispetto ai gialli in voga in quegli anni, Simenon costruisce il personaggio di Maigret. Ed é uno di vari motivi per cui Fayard in un primo momento non voleva pubblicare le storie di quello strano funzionario di Quai des Orfévres. E quindi non è solo nei romans-durs che Simenon scava nell'animo delle persone, cercando il famoso uomo nudo, anche nelle inchieste del commissario si avverte questa esigenza. Insomma anche se il romanziere aveva deciso di dedicare la seconda fase della sua produzione letterariaria al genere giallo (a proposito leggi il post del 21 gennaio scorso Ma perchè Simenon iniziò a scrivere polizieschi?) non rinuncia alla sua impronta narrativa anche se una produzione seriale come quella di Maigret gli imponeva dei paletti e dei limiti.
La trama racconta di un commissario in vacanza con la moglie in Alsazia dove viene coinvolto in un'inchiesta che sarebbe fuori la sua giurisdizione, ma dove agisce coinvolto da un vecchio amico. E' la storia dell'omicidio di un capitano di un peschereccio e di un sospettato accusato senza prove. Il Rendez-Vous des Terres-Neuvas è un caffè di Fécamp dove il commissario inizia le sue discrete e sornioni indagini tra rude gente di mare, di poche parole e ancor meno confidenze. Intanto Maigret inizia a scavare nel passato e scopre un'altro assassinio. Il colpevole alla fine viene stanato, ma una serie di motivazioni fanno decidere al commissario di non dar corso a nessuna denuncia e di tornare a Parigi lasciando la vicenda e i protagonisti al loro destino.
Va sottilineato il capitolo in cui il commissario chiuso in una cabina che, dopo aver assorbito mentalità e atmosfera del posto, ricostruisce tutto l'accaduto. E' un pezzo di bravura e molto, molto significativo per quanto riguarda il personaggio di Maigret e di come si svelerà man mano nelle successive inchieste.
Questo libro è importante non solo perchè il personaggio si delinea più chiaramente, ma anche perché fà la sua comparsa una di quelle che sarà le una delle sue caratteristiche peculiari: "comprendere e non giudicare". E in conseguenza a questa sua convinzione gli verrà affidato il soprannome di riparatore di destini. Il commissario infatti, spesso nelle inchieste seguenti, quando potrà e riterrà che legge e giustizia non coincidano, decide di non agire o di dare un piccolo aiuto in modo che le cose si aggiustino, appunto, secondo giustizia. Certo qui si apre l'interminabile dibattito se un poliziotto possa o no interferire nel ruolo di giudicare che spetta alla magistratura. Ma questa è un'altra storia e questo non è il luogo adeguato per aprire una tale discussione. Comunque per Maigret comprendere vuol dire conoscere, andare a fondo delle motivazioni umane, capire le mentalità, i significati più profondi di certe azioni e quindi talvolta giustificare certe situazioni.
Questa è una della differenze su cui, rispetto ai gialli in voga in quegli anni, Simenon costruisce il personaggio di Maigret. Ed é uno di vari motivi per cui Fayard in un primo momento non voleva pubblicare le storie di quello strano funzionario di Quai des Orfévres. E quindi non è solo nei romans-durs che Simenon scava nell'animo delle persone, cercando il famoso uomo nudo, anche nelle inchieste del commissario si avverte questa esigenza. Insomma anche se il romanziere aveva deciso di dedicare la seconda fase della sua produzione letterariaria al genere giallo (a proposito leggi il post del 21 gennaio scorso Ma perchè Simenon iniziò a scrivere polizieschi?) non rinuncia alla sua impronta narrativa anche se una produzione seriale come quella di Maigret gli imponeva dei paletti e dei limiti.
La trama racconta di un commissario in vacanza con la moglie in Alsazia dove viene coinvolto in un'inchiesta che sarebbe fuori la sua giurisdizione, ma dove agisce coinvolto da un vecchio amico. E' la storia dell'omicidio di un capitano di un peschereccio e di un sospettato accusato senza prove. Il Rendez-Vous des Terres-Neuvas è un caffè di Fécamp dove il commissario inizia le sue discrete e sornioni indagini tra rude gente di mare, di poche parole e ancor meno confidenze. Intanto Maigret inizia a scavare nel passato e scopre un'altro assassinio. Il colpevole alla fine viene stanato, ma una serie di motivazioni fanno decidere al commissario di non dar corso a nessuna denuncia e di tornare a Parigi lasciando la vicenda e i protagonisti al loro destino.
Va sottilineato il capitolo in cui il commissario chiuso in una cabina che, dopo aver assorbito mentalità e atmosfera del posto, ricostruisce tutto l'accaduto. E' un pezzo di bravura e molto, molto significativo per quanto riguarda il personaggio di Maigret e di come si svelerà man mano nelle successive inchieste.
giovedì 28 luglio 2011
SIMENON E LE SUE "MEMOIRES" CHEZ BERNARD PIVOT
Abbiamo più volte citato Mémoires intimes (1981), l'ultima fatica del romanziere. Biografica come nessun'altra opera, non fu dettata al registratore come ormai era abituato. No, queste le scrisse di suo pugno, a quasi ottant'anni, nove anni prima di morire. Un'opera in cui metteva a nudo sé stesso, ma per lasciare non tanto al suo pubblico o alla critica un'immagine quanto più possibile veritiera, ma soprattutto per trasmettere ai propri figli l'immagine di un padre che voleva che si perpetrasse il ricordo, anche di quelle cose che loro, troppo piccoli, non potevano sapere o ricordare. E questo Mémoires intimes fu uno degli argomenti che Bernard Pivot trattò in Apostrophe sua famosa trasmissione televisiva dedicata alla letteratura. E proprio nel novembre dell'81, in un numero speciale dedicato a Simenon, lo scrittore fu sottoposto ad una lunga intervista (di questa abbiamo postato un video il 13 aprile scorso Simenon intervistato da Bernard Pivot che ne contiene un estratto).
In questa intervista si parla molto di Mémoires intimes, ma anche di Pedigree (1948) che Simenon considerava un po' uno il seguito dell'altro. In entrambe si prefiggeva la sincerità più totale, anche quando si trattava di raccontare fatti e aspetti della sua vità che non erano proprio edificanti.
"...ho scritto 'Pedigree', un opera voluminosa come 'Mémoires intimes', che arriva fino ai miei quindici, sedici anni. Dicevo apertamente delle verità molto crude... se ci sono degli elementi scioccanti, considerati indecenti... rispondo che preferisco essere criticato, addirittura detestato, per quello che sono veramente, che essere amato o ammirato per ciò che non sono...".
Insomma sono passati quasi dieci anni da quando Simenon ha scritto il suo ultimo romanzo, Les Innocents (1981), ma la sua ricerca dell'uomo nudo, così com'è, senza sovrastrutture, continua. Questa volta però con una sorta di confessione che mette a nudo lui stesso.
Da Bernard Pivot a questa ricerca dell'uomo nudo, di cui nel corso della sua vita aveva parlato più volte, dà una svolta singolare e inedita.
"... ho fatto di tutto... sport a cavallo, in bicicletta, ho praticato la boxe, tutto quello che si può immaginare come sport, perché volevo conoscere tutto. Sono partito all'avventura attraverso il mondo, ho passato la mia vita a partire, ho abitato in trenta case diverse...il fatto è che io volevo conoscere sempre delle altre cose. In fondo io sono stato sempre alla ricerca dell'uomo. E l'uomo l'ho trovato nella donna. Forse perché la donna è più trasparente, forse perché con una donna potevo avere un contatto che non potrei avere con un uomo. E' una curiosità e tutto questo è archiviato come su una pellicola...".
E non a caso alcuni dei memorabili protagonisti dei romanzi simenoniani sono donne, spesso del popolo, che non di rado debbono lottare contro pregiudizi, che non poche volte riescono lì dove i maschi falliscono.
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In questa intervista si parla molto di Mémoires intimes, ma anche di Pedigree (1948) che Simenon considerava un po' uno il seguito dell'altro. In entrambe si prefiggeva la sincerità più totale, anche quando si trattava di raccontare fatti e aspetti della sua vità che non erano proprio edificanti.
"...ho scritto 'Pedigree', un opera voluminosa come 'Mémoires intimes', che arriva fino ai miei quindici, sedici anni. Dicevo apertamente delle verità molto crude... se ci sono degli elementi scioccanti, considerati indecenti... rispondo che preferisco essere criticato, addirittura detestato, per quello che sono veramente, che essere amato o ammirato per ciò che non sono...".
Insomma sono passati quasi dieci anni da quando Simenon ha scritto il suo ultimo romanzo, Les Innocents (1981), ma la sua ricerca dell'uomo nudo, così com'è, senza sovrastrutture, continua. Questa volta però con una sorta di confessione che mette a nudo lui stesso.
Da Bernard Pivot a questa ricerca dell'uomo nudo, di cui nel corso della sua vita aveva parlato più volte, dà una svolta singolare e inedita.
"... ho fatto di tutto... sport a cavallo, in bicicletta, ho praticato la boxe, tutto quello che si può immaginare come sport, perché volevo conoscere tutto. Sono partito all'avventura attraverso il mondo, ho passato la mia vita a partire, ho abitato in trenta case diverse...il fatto è che io volevo conoscere sempre delle altre cose. In fondo io sono stato sempre alla ricerca dell'uomo. E l'uomo l'ho trovato nella donna. Forse perché la donna è più trasparente, forse perché con una donna potevo avere un contatto che non potrei avere con un uomo. E' una curiosità e tutto questo è archiviato come su una pellicola...".
E non a caso alcuni dei memorabili protagonisti dei romanzi simenoniani sono donne, spesso del popolo, che non di rado debbono lottare contro pregiudizi, che non poche volte riescono lì dove i maschi falliscono.
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mercoledì 27 luglio 2011
SIMENON E FELLINI, FRATELLI DI CREATIVITA'
L'amicizia tra Simenon e Fellini nacque come già abbiamo detto a Cannes in occasione del Festival Internazionale del Cinema, edizione 1960. Il regista italiano partecipava con il film La dolce vita e Simenon, che quell'anno era stato inviatato a presiedere la giuria, aveva un debole per la visionaria creatività di quel regista e, in quell'occasione, per il suo film che voleva a tutti i costi vincesse a Palma d'oro.
Fuorono polemiche e contestazioni, con la direzione del festival, che quell'anno aveva in concorso film e registi eccezionali (vedi il post del 20/11/2010, Cannes 1960: Simenon giudice e Fellini in gara), epoi scontri anche con alcuni giurati, cui però Simenon tenne testa, tanto che nessuno riuscì a modificare il suo obiettivo che era quello di portare la sua giuria a far vincere Fellini. E così fu.
Il rapporto tra Fellini e Simenon era speciale. Soprattutto il romanziere sentiva un'affinità creativa e ravvisava in quello che il regista portava sullo schermo, quello che lui sentiva quando costruiva un personaggio dei suoi romanzi. E ce lo conferma una lettera del '76 che Simenon scriveva a Fellini.
"...Probabilmente siete la persona al mondo con la quale sento i legami più stretti nel campo della creatività... Vorrei che voi avvertiste quanto mi sento vicino a voi come artista, se posso utilizzare questa parola che non amo troppo, come uomo e come creativo. Tutti e due siamo restati, e spero che lo resteremo fino alla fine, dei bambini cresciuti, che obbediscono a delle pulsioni interiori e spesso inesplicabili piutosto che a delle regole che non hanno significato né per me, né per voi...".
Questo riferimento all'essere ancora bambini, ne comporta ovviamente altri, come la conservazione dello stupore nello scoprire le cose, come quella specie di ingenuità creativa, dove per entrambe contavano ancora molto i ricordi della propria infanzia e della propria adolescenza. E questa ammirazione e tenerezza di un verso l'altro viene fuori anche dagli epiteti che utilizzavano nelle lettere che si scambiavano assiduamente (la loro fu un'amicizia essenzialmente letteraria) come già abbiamo avuto modo di sviscerare (vedi il post del 22 aprile scorso Simenon e Fellini. Caro, Carissimo amico, Carissimo grande Amico).
E fu un'amicizia che Fellini ricambiava, leggendo spesso le opere di Simenon e che a volte commentava così: "...ho letto nell'edizione Adelphi, L'uomo che guardava passare i treni, che non conoscevo e che ho trovato stupendo. Bravo, grande Simenon! Non smetti mai di sorprendermi...".
Fuorono polemiche e contestazioni, con la direzione del festival, che quell'anno aveva in concorso film e registi eccezionali (vedi il post del 20/11/2010, Cannes 1960: Simenon giudice e Fellini in gara), epoi scontri anche con alcuni giurati, cui però Simenon tenne testa, tanto che nessuno riuscì a modificare il suo obiettivo che era quello di portare la sua giuria a far vincere Fellini. E così fu.
Il rapporto tra Fellini e Simenon era speciale. Soprattutto il romanziere sentiva un'affinità creativa e ravvisava in quello che il regista portava sullo schermo, quello che lui sentiva quando costruiva un personaggio dei suoi romanzi. E ce lo conferma una lettera del '76 che Simenon scriveva a Fellini.
"...Probabilmente siete la persona al mondo con la quale sento i legami più stretti nel campo della creatività... Vorrei che voi avvertiste quanto mi sento vicino a voi come artista, se posso utilizzare questa parola che non amo troppo, come uomo e come creativo. Tutti e due siamo restati, e spero che lo resteremo fino alla fine, dei bambini cresciuti, che obbediscono a delle pulsioni interiori e spesso inesplicabili piutosto che a delle regole che non hanno significato né per me, né per voi...".
Questo riferimento all'essere ancora bambini, ne comporta ovviamente altri, come la conservazione dello stupore nello scoprire le cose, come quella specie di ingenuità creativa, dove per entrambe contavano ancora molto i ricordi della propria infanzia e della propria adolescenza. E questa ammirazione e tenerezza di un verso l'altro viene fuori anche dagli epiteti che utilizzavano nelle lettere che si scambiavano assiduamente (la loro fu un'amicizia essenzialmente letteraria) come già abbiamo avuto modo di sviscerare (vedi il post del 22 aprile scorso Simenon e Fellini. Caro, Carissimo amico, Carissimo grande Amico).
E fu un'amicizia che Fellini ricambiava, leggendo spesso le opere di Simenon e che a volte commentava così: "...ho letto nell'edizione Adelphi, L'uomo che guardava passare i treni, che non conoscevo e che ho trovato stupendo. Bravo, grande Simenon! Non smetti mai di sorprendermi...".
martedì 26 luglio 2011
SIMENON CONTRO IL GENERALE DE GAULLE
Soffermiamoci sulla storia politica, esattamente quella francese di cinquant’anni fa’. Sappiamo che Simenon non ha mai amato la politica e se n’è occupato solamente quando non ne ha potuto fare a meno, oppure quando lo ha toccato in prima persona. Non che non avesse le sue idee e dei convincimenti chiari. Ma insomma diciamo che l’interesse di Simenon, non solo letterariamente parlando, era concentrato, più sull’individuo, la sua psicologia, la spiegazione del perché di certe sue azioni e di come nella vita di ognuno di noi alcuni fatti producono dei meccanismi che portano a delle specifiche conseguenze.
Nelle espressioni della sua vita privata e in certe sue opere biografiche invece possiamo imbatterci nella critica di alcuni personaggi anche di rilievo.
Cosa però rara, anche per il fatto che, non avendo mai accettato la nazionalità francese, come anche quella statunitense o quella svizzera, aveva sempre l'alibi per tenersi un po’ al latere del dibattito politico e appunto trincerarsi dietro un “… io poi in realtà sono belga e…”.
Qui ci occuperemo di quello che pensava di Charles De Gaulle, uno degli uomini più amati e più odiati della Francia, ma da cui la storia di quel paese, e non solo, dalla seconda guerra mondiale agli anni ’60 non può certo prescindere.
“… Fin dagli inizi dell’esperienza di De Gaulle ero irritato non soltanto dalla sua aria di sufficienza, ma dal suo disprezzo dell’opinione degli altri, ma per ciò che lui e il suo entourage rappresentano (teorici usciti da quelle scuole che si sforzano a ridurre i problemi sociali a equazioni, tutti più o meno appartenenti alle grandi banche o ai più influenti gruppi d’affari)…”
Insomma, Simenon vede un partito costruito in maniera piramidale, dove non c’era posto per altre posizioni politiche, ma anche per altri veri politici, bastavano i tecnocrati. Un sistema di potere dove le teorie e le decisioni del capo scendevano giù dal vertice sino alla base della piramide, senza confronti e senza incontrare ostacoli. E su questo Simenon non faceva sconti, confessava addirittura che certe volte si compiaceva di certi insuccessi della politica francese, perché erano gli insuccessi di De Gaulle. Era arrivato ad essere tentato di firmare la petizioni dei 121 intellettuali francesi che si erano schierati contro l’invio dei soldati Algeria e al loro diritto alla diserzione per non compiere atti contrari alla propria coscienza e contro la popolazione algerina. E’ vero, Simenon parla solo di tentazione di firmare l’appello (cosa che poi non fece). Ma già che un simile pensiero si fosse fatto strada nel cervello di un apolitico (come si definiva lui stesso) sempre accuratamente al margine delle prese di posizione politiche in pubblico, era un sintomo chiaro dei suoi sentimenti verso il Generale.
“…allora, si leggano freddamente i suoi discorsi. Non sono altro che dei luoghi comuni e dei falsi machiavellismi, il tutto è paccottiglia. Ci si batte nelle strade di Algeri e lui, da due anni, prende in giro tutti, li illude… E adesso che ha preso i pieni poteri, secondo me non intende più lasciarli – scrive Simenon nel ’61 in Quand j’étais vieux – e annuncia che in un paese moderno le libertà non si possono difendere che con…delle restrizioni delle libertà… Mente, si contraddice, tergiversa, le espressioni del volto come quelle di un clown triste e non c’è nessuno che scoppi a ridere o che urli: J’accuse!”.
Ma gli strali di Simenon non si appuntano solo sul capo, ma anche sui suoi uomini e i suoi più stretti collaboratori.
“…disprezza tutti gli uomini, anche quelli che compongono il suo ‘entourage’. Ed e vero, perché li sceglie tra i meno interessanti. E, nonostante tutto, li porta come esempio…”.
Poi c’è la repulsione che Simenon nutriva per le eccessive esteriorizzazioni e che invece erano un punto importante del sistema mediatico del Generale.
“…La grandeur di cui ha piena la bocca è il nazionalismo più estremo, il più esaltato e il più aggressivo, la pompamagna, i costumi, le uniformi, le parate, le messe in scena e un protocollo che, con mio grande stupore, è sconosciuto anche nei paesi più rigidamente monarchici, dovrebbe far ridere la gente…”.
E il romanziere, che non può certo essere tacciato di simpatie comuniste o di posizioni di sinistra, va giù duro.
“…E’ là, un anacronismo vivente, che pretende di sapere tutto, di comandare personalmente ogni cosa, con il solo aiuto di sé stesso… Parla ai “Francesi”, ma quei Francesi non sono il popolo, che lui guarda da molto in alto, ma si tratta dei rappresentanti dei grandi interessi privati…”.
Simenon si chiede abbastanza spesso quanto tutto ciò potrà durare, ma non sa darsi risposta. O meglio la sua risposta ci riporta ancora alla propria visione del mondo dell’uomo, del romanziere, dell’indagatore dell’animo umano.
“…Io mi preoccupo per i veri uomini, per quelli che lavorano in silenzio e che non si credono infallibili, che dubitano, che avanzano poco a poco e fanno progredire l’uomo in tutti i campi della conoscenza. Per tutti questi la sua (di De Gaulle) presenza è come un insulto…”.
Dopo cinquant’anni possiamo dire che la politica è cambiata, almeno negli aspetti qui denunciati da Simenon?
Nelle espressioni della sua vita privata e in certe sue opere biografiche invece possiamo imbatterci nella critica di alcuni personaggi anche di rilievo.
Cosa però rara, anche per il fatto che, non avendo mai accettato la nazionalità francese, come anche quella statunitense o quella svizzera, aveva sempre l'alibi per tenersi un po’ al latere del dibattito politico e appunto trincerarsi dietro un “… io poi in realtà sono belga e…”.
Qui ci occuperemo di quello che pensava di Charles De Gaulle, uno degli uomini più amati e più odiati della Francia, ma da cui la storia di quel paese, e non solo, dalla seconda guerra mondiale agli anni ’60 non può certo prescindere.
“… Fin dagli inizi dell’esperienza di De Gaulle ero irritato non soltanto dalla sua aria di sufficienza, ma dal suo disprezzo dell’opinione degli altri, ma per ciò che lui e il suo entourage rappresentano (teorici usciti da quelle scuole che si sforzano a ridurre i problemi sociali a equazioni, tutti più o meno appartenenti alle grandi banche o ai più influenti gruppi d’affari)…”
Insomma, Simenon vede un partito costruito in maniera piramidale, dove non c’era posto per altre posizioni politiche, ma anche per altri veri politici, bastavano i tecnocrati. Un sistema di potere dove le teorie e le decisioni del capo scendevano giù dal vertice sino alla base della piramide, senza confronti e senza incontrare ostacoli. E su questo Simenon non faceva sconti, confessava addirittura che certe volte si compiaceva di certi insuccessi della politica francese, perché erano gli insuccessi di De Gaulle. Era arrivato ad essere tentato di firmare la petizioni dei 121 intellettuali francesi che si erano schierati contro l’invio dei soldati Algeria e al loro diritto alla diserzione per non compiere atti contrari alla propria coscienza e contro la popolazione algerina. E’ vero, Simenon parla solo di tentazione di firmare l’appello (cosa che poi non fece). Ma già che un simile pensiero si fosse fatto strada nel cervello di un apolitico (come si definiva lui stesso) sempre accuratamente al margine delle prese di posizione politiche in pubblico, era un sintomo chiaro dei suoi sentimenti verso il Generale.
“…allora, si leggano freddamente i suoi discorsi. Non sono altro che dei luoghi comuni e dei falsi machiavellismi, il tutto è paccottiglia. Ci si batte nelle strade di Algeri e lui, da due anni, prende in giro tutti, li illude… E adesso che ha preso i pieni poteri, secondo me non intende più lasciarli – scrive Simenon nel ’61 in Quand j’étais vieux – e annuncia che in un paese moderno le libertà non si possono difendere che con…delle restrizioni delle libertà… Mente, si contraddice, tergiversa, le espressioni del volto come quelle di un clown triste e non c’è nessuno che scoppi a ridere o che urli: J’accuse!”.
Ma gli strali di Simenon non si appuntano solo sul capo, ma anche sui suoi uomini e i suoi più stretti collaboratori.
“…disprezza tutti gli uomini, anche quelli che compongono il suo ‘entourage’. Ed e vero, perché li sceglie tra i meno interessanti. E, nonostante tutto, li porta come esempio…”.
Poi c’è la repulsione che Simenon nutriva per le eccessive esteriorizzazioni e che invece erano un punto importante del sistema mediatico del Generale.
“…La grandeur di cui ha piena la bocca è il nazionalismo più estremo, il più esaltato e il più aggressivo, la pompamagna, i costumi, le uniformi, le parate, le messe in scena e un protocollo che, con mio grande stupore, è sconosciuto anche nei paesi più rigidamente monarchici, dovrebbe far ridere la gente…”.
E il romanziere, che non può certo essere tacciato di simpatie comuniste o di posizioni di sinistra, va giù duro.
“…E’ là, un anacronismo vivente, che pretende di sapere tutto, di comandare personalmente ogni cosa, con il solo aiuto di sé stesso… Parla ai “Francesi”, ma quei Francesi non sono il popolo, che lui guarda da molto in alto, ma si tratta dei rappresentanti dei grandi interessi privati…”.
Simenon si chiede abbastanza spesso quanto tutto ciò potrà durare, ma non sa darsi risposta. O meglio la sua risposta ci riporta ancora alla propria visione del mondo dell’uomo, del romanziere, dell’indagatore dell’animo umano.
“…Io mi preoccupo per i veri uomini, per quelli che lavorano in silenzio e che non si credono infallibili, che dubitano, che avanzano poco a poco e fanno progredire l’uomo in tutti i campi della conoscenza. Per tutti questi la sua (di De Gaulle) presenza è come un insulto…”.
Dopo cinquant’anni possiamo dire che la politica è cambiata, almeno negli aspetti qui denunciati da Simenon?
lunedì 25 luglio 2011
SIMENON. AGGIORNAMENTO DALLE CLASSIFICHE
La versione originale di Maigret e l'uomo solitario |
SIMENON E MARCEL PROUST
Quando nel ’34 per Simenon si aprirono le porte della ambita case editrice Gallimard (vedi il post del 20/11/2010 Il contratto con Gaston Gallimard) si inaugurò anche una convivenza sotto lo stesso tetto editoriale con personaggi e addirittura icone della cultura francese cui certo non era abituato da Fayard o ancor meno da Ferenczy o Tallandier. Stiamo parlando di nomi come Andrè Gide, Paul Valery, Marcel Proust. Se da una parte vedere i titoli dei suoi romanzi a fianco di quelli di tali mostri sacri non poteva che inorgoglirlo, dall’altra la convivenza con nomi così… ingombranti non era psicologicamente facile per chi, come lui, era sempre stato la punta di diamante dei precedenti editori.. che ovviamente non erano Gallimard.
Anche se poi di questi Gide era un suo appassionato ammiratore e un suo sponsor presso Gallimard e Proust era uno degli scrittori che Simenon ammirava di più.
Anzi, a questo proposito, Simenon affermava di aver letto due volte l’opera di Proust, una prima volta man mano che uscivano i romanzi e poi una seconda con l’opera completa così come era stata edita appunto da Gallimard. L’autore di Pedigree poi non poteva non apprezzare questo rincorrere la propria infanzia prima e poi l’adolescenza, la ricostruzione dei ricordi e delle atmosfere di quel particolare periodo.
E anche se Simenon considerava Proust uno dei maggiori romanzieri dei suoi tempo, questo non lo esimeva però dal constatare come la costruzione del romanzo in Proust fosse molto diversa da quella propria.
“Quello che mi disturba un po’ è forse il modo con cui Marcel Proust costruisce le sue opere. E’ anche il tipo di mondo, ma questo lo sapevo, che ha scelto di descrivere. Non condivido il suo modo di descrivere un ricordo, che sia il colore di un vestito, il ricamo che lo guarnisce, la pettinatura di questa o quella sua eroina, questa insistenza, questo bisogno di vedere subito l’originale per essere certo che i suoi ricordi non lo ingannino… ma cosa importa se il vestito che portava la duchessa quel giorno, alla tale ora, in quel dato salone fosse grigio o rosa… E’un po’ come quando si recava di notte al Ritz per rivedere bene dei visi ed essere così essere sicuro di rappresentarli con verosimiglianza…”
Ma l’analisi di Simenon è profonda. Nonostante riconosca la bravura di Proust nel costruire i personaggi, vividi, ben disegnati, aderenti al modello originale, trova però che manchi qualcosa…
“…e tutti sembrano muoversi come figure in un mondo artificiale dove non si sente vibrare alcun calore umano. So che in questo modo mi metto contro tutti i ‘proustiani’. Comunque io stesso continuo ad essere un ammiratore di Proust sin da quando ho letto ‘Du cotê de chez Swann’ nel 1918 , vale a dire da quando avevo 15 anni…”.
Anche se poi di questi Gide era un suo appassionato ammiratore e un suo sponsor presso Gallimard e Proust era uno degli scrittori che Simenon ammirava di più.
Anzi, a questo proposito, Simenon affermava di aver letto due volte l’opera di Proust, una prima volta man mano che uscivano i romanzi e poi una seconda con l’opera completa così come era stata edita appunto da Gallimard. L’autore di Pedigree poi non poteva non apprezzare questo rincorrere la propria infanzia prima e poi l’adolescenza, la ricostruzione dei ricordi e delle atmosfere di quel particolare periodo.
E anche se Simenon considerava Proust uno dei maggiori romanzieri dei suoi tempo, questo non lo esimeva però dal constatare come la costruzione del romanzo in Proust fosse molto diversa da quella propria.
“Quello che mi disturba un po’ è forse il modo con cui Marcel Proust costruisce le sue opere. E’ anche il tipo di mondo, ma questo lo sapevo, che ha scelto di descrivere. Non condivido il suo modo di descrivere un ricordo, che sia il colore di un vestito, il ricamo che lo guarnisce, la pettinatura di questa o quella sua eroina, questa insistenza, questo bisogno di vedere subito l’originale per essere certo che i suoi ricordi non lo ingannino… ma cosa importa se il vestito che portava la duchessa quel giorno, alla tale ora, in quel dato salone fosse grigio o rosa… E’un po’ come quando si recava di notte al Ritz per rivedere bene dei visi ed essere così essere sicuro di rappresentarli con verosimiglianza…”
Ma l’analisi di Simenon è profonda. Nonostante riconosca la bravura di Proust nel costruire i personaggi, vividi, ben disegnati, aderenti al modello originale, trova però che manchi qualcosa…
“…e tutti sembrano muoversi come figure in un mondo artificiale dove non si sente vibrare alcun calore umano. So che in questo modo mi metto contro tutti i ‘proustiani’. Comunque io stesso continuo ad essere un ammiratore di Proust sin da quando ho letto ‘Du cotê de chez Swann’ nel 1918 , vale a dire da quando avevo 15 anni…”.
domenica 24 luglio 2011
SIMENON E LE SUE BRASSERIE
Le brasserie di Parigi sono una delle attrative per tutti i turisti del modo. Quella particolare atmosfera quel tipo di locale con clienti abituali e di passaggio, dove si beve un drink, dove si mangia e dove si può giocare a carte... E Simenon lo sapeva. Soprattutto negli anni '30, quando iniziò a pubblicare i Maigret, queste erano già nell'immaginario collettivo dei suoi lettori e non solo. E la riprova di questo appeal, è la presenza della famosa Brasserie Dauphine nelle inchieste del comissario. E' uno dei punti di riferimento, anche se poi nel corso delle indagini Maigret e i suoi uomini si fermano spesso in altre. Ma la Brasserie Dauphine fa molto casa... soprattutto d'inverno, la notte, la mattina all'alba quando un caso costringe tutta la squadra al Quai des Orfévres.
Questa passione per le brasserie però valeva anche per Simenon.
Lui stesso ne ricorda alcune, come quella di Epinal, dove prestò servizio miltare e quella di Caen, la più bella che lui ricordi, di cui ci racconta l'atmosfera.
"...C'è la luce calda dell'interno, e la pioggia che corre sui vetri, la gente che entra e che scuote i vestiti bagnati, le auto che si fermano davanti e di cui per un attimo si percepiscono i fari. Ci sono le famiglie, che si sono bardate per la circostanza, e gli habitué con i visi rossi, che giocano le loro partite a domino e a carte, sempre sullo stesso tavolo e che chiamano i camerieri per nome. E' un mondo, capite, un mondo quasi completo che basta a sé stesso, un mondo in cui mi immergevo con voluttà e che sognavo di non lasciare mai...".
Questa passione per le brasserie però valeva anche per Simenon.
Lui stesso ne ricorda alcune, come quella di Epinal, dove prestò servizio miltare e quella di Caen, la più bella che lui ricordi, di cui ci racconta l'atmosfera.
"...C'è la luce calda dell'interno, e la pioggia che corre sui vetri, la gente che entra e che scuote i vestiti bagnati, le auto che si fermano davanti e di cui per un attimo si percepiscono i fari. Ci sono le famiglie, che si sono bardate per la circostanza, e gli habitué con i visi rossi, che giocano le loro partite a domino e a carte, sempre sullo stesso tavolo e che chiamano i camerieri per nome. E' un mondo, capite, un mondo quasi completo che basta a sé stesso, un mondo in cui mi immergevo con voluttà e che sognavo di non lasciare mai...".
sabato 23 luglio 2011
SIMENON. COME FINISCE UN ROMANZIERE
"Ho preso la decisione di non scrivere più romanzi". La frase apre l'intervista con un giornalista svizzero di un quotidiano di Losanna nel febbraio del 1973.
E' una frase pesante. A quell'epoca Simenon aveva settant'anni e non era poi così vecchio, ma forse era logorato da un vita dedicata allo sforzo creativo.
"Roman terminè. Je rentre dans la vie" scriveva in Quand j'étais vieux. Questo entrare e uscire dall'état de roman, non aveva solo un effetto fisico, (quei cinque chili che perdeva durante la stesura di un romanzo) ma c'era dell'altro. La tensione psichica, quel fare vuoto dentro di sé per far spazio al protagonista del momento, il cercare di entrare nella pelle degli altri... di essere, sia pure per un breve periodo, un'altro. Insomma tutto questo logora. E alla fine?
Alla fine c'è un foglio nella macchina da scrivere con il titolo di un romanzo, Victor che non ci sarà mai. E' la fine de l'ètat de roman, è la fine della "professione romanziere"... ormai sarà un senza-professione.
Simenon racconta nel '73 in un'altra intervista (a Henry Charles Tauxe - 24 heures - Lausanne) che aveva dovuto farsi curare in ospedale per certe vertigini che lo prendevano e che duravano anche un'ora. Le cure gli ridussero la durata delle vertigini a pochi minuti... "...Solo che per scrivere i miei romanzi bisogna che io sia al cento per cento in piena forma. Soprattutto per il fatto che i miei romanzi diventano man mano più "durs".... Allora ho preso la decisione di fermarmi... Credo di averla presa insieme a quella di sbarazzarmi di questa casa (la villa di Epalinges)...Per me è stata una liberazione...".
Insomma Simenon tira i remi in barca dopo che dal 1923 non aveva mai smesso di scrivere, prima la letteratura alimentare, poi i Maigret e quindi i romanzi. A ritmi forsennati nei primi anni e poi comunque sempre molto prolifico negli anni successivi. Per di più una volta aveva accennato che mentre prima i Maigret erano una sorta di stacco e di evasione tra un romanzo e l'altro, negli ultimi anni erano ormai diventati più "durs", più vicini ai romanzi e quindi richiedevano una fatica analoga.
"...Ora tutto ad un tratto voglio vivere la mia vita, mi sono liberato, mi sento contento e perfettamente sereno. Io diventavo schiavo dei miei personaggi. Era molto faticoso. Ora non permetto loro di impormi la loro presenza. Mantengo le distaze. Sono rientrato nella mia pelle, nella mia vita e non ho più la forza di creare dei personaggi..."
Questa intervista è davvero rivelatrice vale la pena citarne un'altro brano:
"...Nessun rimpianto. Ho consacrato tutta la mia vita al romanzo, ho pubblicato 214 libri, ora provo il bisogno di respirare. Mi occorre sempre più forza per scrivere i miei romanzi: tra la tensione dei primi libri e quella che esigevano gli ultimi, c'è una differenza enorme. Prima di scrivere ogni capitolo ero costretto a prendere un sedativo molto forte. Se avessi continuato mi sarei ucciso nel giro di due o tre anni. Avrei potuto continuare, senz'altro, facendo affidamento sul "mestiere", ma avrei approfittato dei miei lettori e io non lo voglio affatto...".
Questo era Simenon, il romanziere,
E' una frase pesante. A quell'epoca Simenon aveva settant'anni e non era poi così vecchio, ma forse era logorato da un vita dedicata allo sforzo creativo.
"Roman terminè. Je rentre dans la vie" scriveva in Quand j'étais vieux. Questo entrare e uscire dall'état de roman, non aveva solo un effetto fisico, (quei cinque chili che perdeva durante la stesura di un romanzo) ma c'era dell'altro. La tensione psichica, quel fare vuoto dentro di sé per far spazio al protagonista del momento, il cercare di entrare nella pelle degli altri... di essere, sia pure per un breve periodo, un'altro. Insomma tutto questo logora. E alla fine?
Alla fine c'è un foglio nella macchina da scrivere con il titolo di un romanzo, Victor che non ci sarà mai. E' la fine de l'ètat de roman, è la fine della "professione romanziere"... ormai sarà un senza-professione.
Simenon racconta nel '73 in un'altra intervista (a Henry Charles Tauxe - 24 heures - Lausanne) che aveva dovuto farsi curare in ospedale per certe vertigini che lo prendevano e che duravano anche un'ora. Le cure gli ridussero la durata delle vertigini a pochi minuti... "...Solo che per scrivere i miei romanzi bisogna che io sia al cento per cento in piena forma. Soprattutto per il fatto che i miei romanzi diventano man mano più "durs".... Allora ho preso la decisione di fermarmi... Credo di averla presa insieme a quella di sbarazzarmi di questa casa (la villa di Epalinges)...Per me è stata una liberazione...".
Insomma Simenon tira i remi in barca dopo che dal 1923 non aveva mai smesso di scrivere, prima la letteratura alimentare, poi i Maigret e quindi i romanzi. A ritmi forsennati nei primi anni e poi comunque sempre molto prolifico negli anni successivi. Per di più una volta aveva accennato che mentre prima i Maigret erano una sorta di stacco e di evasione tra un romanzo e l'altro, negli ultimi anni erano ormai diventati più "durs", più vicini ai romanzi e quindi richiedevano una fatica analoga.
"...Ora tutto ad un tratto voglio vivere la mia vita, mi sono liberato, mi sento contento e perfettamente sereno. Io diventavo schiavo dei miei personaggi. Era molto faticoso. Ora non permetto loro di impormi la loro presenza. Mantengo le distaze. Sono rientrato nella mia pelle, nella mia vita e non ho più la forza di creare dei personaggi..."
Questa intervista è davvero rivelatrice vale la pena citarne un'altro brano:
"...Nessun rimpianto. Ho consacrato tutta la mia vita al romanzo, ho pubblicato 214 libri, ora provo il bisogno di respirare. Mi occorre sempre più forza per scrivere i miei romanzi: tra la tensione dei primi libri e quella che esigevano gli ultimi, c'è una differenza enorme. Prima di scrivere ogni capitolo ero costretto a prendere un sedativo molto forte. Se avessi continuato mi sarei ucciso nel giro di due o tre anni. Avrei potuto continuare, senz'altro, facendo affidamento sul "mestiere", ma avrei approfittato dei miei lettori e io non lo voglio affatto...".
Questo era Simenon, il romanziere,
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