lunedì 6 dicembre 2010

SIMENON: LE PAROLE PER DIRLO... ANZI PER SCRIVERLO

Poche. Lo sappiamo. Fin dai primi tempi, quando riuscì a farsi accettare la pubblicazione dei suoi racconti su Le Matin, quando Colette, che ne dirigeva la pagina letteraria, accettò i suoi scritti al momento in cui furono finalmente liberi dalla "letteratura", come diceva lei stessa. Questa assenza di letteratura va individuata, nella scrittura di Simenon, intanto nel contenuto numero di vocaboli che utilizzava. "Nello scrivere un romanzo uso circa duemila termini, non di più" questo asseriva ad esempio lo scrittore. Non abbiamo ovviamente mai fatto un riscontro aritmetico, ma  dai primi romanzi, agli ultimi, dai Magret ai non-Maigret, c'è, soprattutto nella versione originale, questa sensazione di continuità per l'asciuttezza e l'essenzialità. E questo non va a detrimento della creazione dei personaggi che sono a volte solo tratteggiati, ma nei punti essenziali, tali così da risultare, veri, completi e dotati di un notevole spessore anche piscologico. Lo stesso si può dire per le famose atmosfere simenoniane. Anche qui un ambiente, una certa aria, una mentalità o anche un contesto familiare, paesano o di quartiere, non richiedono mai lunghe descrizioni e troppe parole. Simenon evita sin dagli inizi, e poi diverrà un vero e proprio punto d'onore, le frasi stereotipate, le parole decorative, i modi di dire, tutto ciò che è consueto e consumato dal linguaggio scritto o parlato viene accuratamente scartato. Ed è proprio Simenon che lo racconta ancor meglio in un brano di Quand j'étais vieux. "Io odio talmente, o meglio, non mi danno alcuna fiducia, le parole d'autore, la frase che colpisce, l'idea lungamente maturata per la quale sono state cercate le parole più adeguate. Per una volta, in uno dei miei romanzi, mi sono lasciato andare e ho fatto passare una parola (e qui si ha proprio la sensazione dello sbarramento alle parole "proibite" durante la scrittura), una parola di questo tipo, niente affatto originale, ma non ho avuto il coraggio di eliminarla durante la revisione. Ho esitato.  Ci ho pensato anche a letto. Sono sceso per tagliare la famosa frase, ma ormai i testi erano partiti per l'editore  e io mi continuavo a tormentare ancora. Ma a quel punto che fare? Ben poco... Mi sono ripromesso di tagliarla quando riceverò le ultime bozze...". E poi c'è da considerare la velocità della scrittura. Se in sette-otto giorni riusciva a terminare un romanzo, il ritmo serrato con cui procedeva non gli permetteva certo lunghe pause per trovare parole ricercate e digressioni nella narrazione o perdite di tempo per imbellettare il testo. Quella che possiamo chiamare terminologia simenoniana era ormai così connaturata e automatica, che il romanziere non doveva pensare a come e cosa scrivere, lo sapeva già, l'aveva introiettato in milioni di righe scritte prima nei racconti, poi nei romanzi popolari, quindi nei Maigret ed infine nei romans-romans, o romans-dur.

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