venerdì 29 settembre 2017

SIMENON SIMENON. LE FINESTRE E LA VITA DEGLI ALTRI

Nelle opere di Simenon, quali sono i temi illustrati simbolicamente dalle finestre ?  

SIMENON SIMENON. LES FENÊTRES ET LA VIE DES AUTRES 
Dans l'œuvre de Simenon, quels sont les thèmes illustrés symboliquement par les fenêtres ? 
SIMENON SIMENONWINDOWS AND OTHERS' LIFE  
In Simenon's works, which are the themes symbolically illustrated by windows? 



Sono molte le finestre attraverso cui è costretto a guardare il frequentatore dell'opera di Simenon, a cominciare da “Le finestre di fronte” (del 1933, ma il titolo originale suona “Les gens d’en face”), le finestre che ogni giorno, ogni notte, si ritrova a osservare Adil Bey per tentare di sfuggire alla propria solitudine, a quel senso di estraneità e di vuoto che avverte crescere intorno a sé, dentro sé. Le finestre che spia alla ricerca di un barlume, anche solo un’illusione, d’intimità famigliare, banale, fors’anche squallida, ma rassicurante. Le finestre dalle quali però probabilmente è a sua volta spiato. Le finestre che non si riapriranno più, a siglare una sconfitta cui è impossibile sfuggire, la sconfitta, tipicamente simenoniana ma mai così precisamente, storicamente, declinata, dell’individuo che cerca di ribellarsi alle regole della società. 
La finestra a mezza luna, che si apre a livello del pavimento, attraverso la quale Jerome, in “Pioggia nera” (del 1939), cerca di stabilire un contatto con Albert, unico coetaneo in un mondo di adulti, unico amico, anche se non gli ha mai rivolto la parola e non ha mai giocato con lui. La finestra attraverso cui gli giunge lo spettacolo del mercato, con i suoi personaggi pittoreschi, le sue abitudini e rituali, ma attraverso la quale è anche costretto ad assistere a quello sconvolgente della folla inferocita, in una scena che richiama le analoghe de “Il fidanzamento del signor Hire” e de “La casa dei Krull”, a conferma di come anch’essa costituisca una delle ossessioni profonde di Simenon, la ferocia nei confronti del diverso. 
Finestre come luogo della solitudine quindi, ma lsolitudine più terribile è probabilmente quella di Dominique ne “La finestra dei Rouet” (del 1942), la solitudine di una donna che scopre di non avere mai vissuto, di non essere mai uscita dai binari di una routine deprimente, di essere incapace di vivere. Una donna che scopre di essere sempre stata spaventata dall’esuberanza della vita, dalla sua volgarità e ferocia, e lo scopre proprio spiando attraverso le finestre della dirimpettaia, progressivamente giungendo a comprendere che quell’avidità di vita, che sempre ha disprezzato, è forse l’unico modo di vivere che vale la pena di essere vissuto. Una donna che scopre di essere esclusa da ciò a causa della propria impotenzaun’impotenza la cui radice sessuale Simenon indaga con lucidità a tratti spietata. Ed allora cerca di appropriarsi della vita della dirimpettaia, di rubarla, giungendo ad accantonare anche quel senso di dignità che da sempre è stato il baluardo della sua esistenza, giungendo a elemosinare uno sguardo, l’incrociarsi degli occhi, in un’illusione di complicità destinata a spezzarsi. 
Le finestre ancora una volta si rivelano, nel modo più tragico, il luogo del desiderio, del bisogno di comunicare, e della sua impossibilità. Del desiderio di vivere le vite degli altri per colmare un vuoto. Ma le finestre possono anche essere il luogo del riscatto, della redenzione da parte di chi ("La neve era sporca", del 1947) si è autoesiliato dalla vita ordinaria, dalla vita degli altri, macchiandosi dei crimini più infamanti non per necessità materiale, ma per affacciarsi dall'altra parte, per sfidare il destino con un atto gratuito. Sarà proprio una finestra, quella del terzo piano che vede dalla prigionia, quella della giovane donna intenta alle quotidiane incombenze domestiche, a far comprendere a Frank il valore delle cose semplici che sempre ha disprezzato, a riconciliarlo con la vita comune. Anche qui una comunicazione impossibile, che però si trasfigura, nell'incontro con Holst, in quelle poche parole, in quei gesti essenzialiin comunicazione autentica. La comunione con quella figura di padre che, come tanti altri giovani nei romanzi di Simenon, ha sempre ricercato, pur rifiutandosi di ammetterlo a se stesso. Sarà il riconoscimento di ciò a donargli l'estrema serenità. Un dono del destino nei confronti di chi contro il destino si è sempre accanito. 
“I fantasmi del cappellaio” (1948) ci fa entrare in un’altra forma di solitudine, quella di un uomo apparentemente perfettamente integrato nel proprio ambiente sociale, cui è riservato un posto al caffè fra i notabili della città. Ci fa entrare, come oggi di moda, nella mente di un serial killer. L’emarginato, il capro espiatorio ideale, è invece il piccolo sarto ebreo seduto a gambe incrociate sul tavolo di lavoro che il cappellaio spia attraverso la finestra, in una strada così stretta che sembra di vivere nella stessa casa. Il piccolo sarto ebreo che è l'unico testimone dei suoi delitti e, al contempo, l'unica persona con cui avrebbe voluto parlare, in una forma apparentemente paradossale di rispecchiamento che in qualche modo gli rivela la sua condizione di escluso. Quel piccolo sarto ebreo la cui morte lo costringe ad accettare il proprio destino privo di redenzione. 
Un piccolo sarto ebreo, seduto a gambe incrociate su un grande tavolo, intento a cucire per giornate intere, lo vedevano, sempre attraverso una finestra, anche i protagonisti fortemente autobiografici di "Tre camere a Manhattan" (1946). Quel vecchio sarto ebreo che sarà l'inconsapevole testimone della svolta nel loro rapporto, del primo accenno a una sua possibile quotidianità. Quel sarto ebreo in cui vedono riflessa la propria solitudine, e che per tutte queste ragioni diventerà il loro feticcio, il destinatario dell'ultimo addio in un finale, per Simenon, insolitamente aperto. 

Luca Bavassano 

3 commenti:

  1. questo post presenta un'analisi davvero interessante e completa

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    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    2. Grazie, spero che la seconda parte sia altrettanto interessante

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