Come già successo con altri titoli (per ultimo ricordiamo Betty ) pubblichiamo la recensione di una nostra amica appassionata di Simenon, che ormai possiamo considerare una collaboratrice di Simenon Simenon. Stiamo parlando di Paola Cerana, giornalista che si occupa di cultura per varie testate, e che stavolta ci regala un piccolo, ma sfizioso "saggio" su Le Chat, scritto da Simenon nella seconda metà degli anni '60, una decina d'anni dopo anche un film di successo, e che ci presenta un altro tipo di "passaggio della linea". I due protagonisti Marguerite e Emile l'hanno passata entrambe.
Ogni storia narrata da Georges Simenon ha una sua stagione, con un
suo colore e un suo odore. E’ come se l’atmosfera esteriore riflettesse
lo stato d’animo dei personaggi e, probabilmente, dell’autore stesso.
Simenon ha scritto
Le Chat nella prima settimana d’ottobre del
1966, a Epalinges, nella sua grande villa presso Losanna. In quel
periodo era rimasto quasi solo, con i suoi sessant’anni ma ancora tanta
voglia di vivere e di scrivere. Denyse, la sua seconda moglie, l’aveva
lasciato definitivamente da qualche anno e i figli, ormai grandi,
avevano preso ognuno la propria strada, a parte il più piccolo, Nicolas.
Lontano, dunque, dalla grande famiglia e dalle abituali
femmes de
chambre, lo scrittore sembra aver voluto trarre ispirazione proprio da
questo clima intimo di profonda meditazione e d’isolamento psicologico
per scrivere questo romanzo. Il trascorrere del tempo in un’apparente
immobilità, i ricordi della giovinezza e i sentimenti di un’età adulta
volta verso la vecchiaia si mescolano nel racconto con tale intensità da
ispirare una sceneggiatura, poco dopo la prima pubblicazione del libro.
Nel 1971, il romanzo diventa, infatti, una pellicola cinematografica
con l’omonimo titolo, sotto la regia di Pierre Granier-Deferre e con
l’interpretazione di Simone Signoret e Jean Gabin.
Il Gatto,
ripubblicato di recente da Adelphi, si svolge in novembre e racconta la
grottesca relazione di due anziani coniugi, Marguerite e Emile Bouin. La
coppia vive in un appartamento di Parigi in cui tutto pare immobile e
ovattato come in una fotografia ed è solo l’orologio a pendolo, con il
fremito titubante delle sue lancette nere, a ricordare ogni mezz’ora che
il tempo passa. Fuori, il ticchettio della pioggia si confonde allo
zampillio della fontana di marmo, dove un amorino di bronzo sorregge un
pesce che sputa acqua. Solo quando la betoniera del cantiere di fronte
si spegne e il frastuono di ferraglia cede il passo alla quiete della
sera, si può percepire bene il lamento della pioggia sotto la luce
tremula dei lampioni.
Ma non è sempre tutto uggioso e statico
nella vita dell’anziana coppia. Anche il loro autunno ha un colore e un
odore, frutto dei ricordi e dei rimpianti, che Simenon pennella qua e là
nel libro come fosse la tela d’un pittore. Il color malva aleggia
soffice come uno spruzzo di primavera tra la pioggia. E’ il colore del
tailleur che Marguerite Bouin indossa nelle giornate di sole, anche in
quelle autunnali, insieme a un cappellino bianco che potrebbe dare alla
donna un aspetto adolescenziale. In realtà, Marguerite ha settantuno
anni e della sua giovinezza ha conservato solo l’eccessiva magrezza, il
pallore etereo e un sorriso mellifluo ormai avvizzito. Sferruzza a
maglia con religiosa minuzia, tutti i giorni, seduta accanto al camino
acceso davanti a una televisione inascoltata, combattuta tra i rosei
ricordi del suo passato e la piatta quotidianità senza orizzonti. I
bagliori di una famiglia dell’alta borghesia poi caduta in rovina e
l’affetto per l’ex marito musicista defunto sono ciò che di più caro
conserva nel cuore, per consolarsi del grigio presente.
Anche
Emile Bouin, suo marito, siede abitualmente nella propria poltrona
accanto al camino, apparentemente immerso nella lettura di un quotidiano
sgualcito. In realtà, è anche lui rapito da rancorose memorie e
languidi ricordi. Anch’egli è vedovo, di una donna allegra e polposa,
tutto l’opposto di Marguerite che gli evoca piuttosto un uccellino
lezioso e petulante. Come si sia potuto invaghire di Marguerite al punto
da risposarsi in tarda età non lo capirà mai! Tuttavia, Emile non si è
rassegnato ai suoi settantaquattro anni, né alla promessa fedeltà
coniugale, ancora animato da quel temperamento sanguigno che solo gli
operai delle balieu ostinate come la sua possono vantare. E’ un
abitudinario, tanto che nemmeno s’è accorto d’invecchiare, così rapito
dalla ritualità di gesti che da anni replica identici a se stessi. Col
tempo è diventato insensibile a tante cose, tra cui gli odori, a parte
quello della cera per il parquet. Emile lo trova talmente buono da voler
pulire il pavimento di casa Bouin una volta la settimana, non per far
piacere alla moglie ma solo per goderne gli effluvi.
Le giornate
trascorse insieme si susseguono identiche, da anni. Nell’umido, caldo
silenzio del salotto, Emile dalla sua poltrona ogni tanto appallottola
un foglietto di carta su cui scrive qualcosa e lo lancia in grembo a
Marguerite che, con soppesata lentezza, lo srotola e lo legge, prima di
gettarlo nel camino con un sorriso spento. “IL GATTO”, di solito c’è
scritto. Al che, Marguerite con tutta calma s’arma di un altro foglietto
di carta e di una matita, rilanciando in faccia al marito le solite due
parole in risposta: “IL PAPPAGALLO”. Ecco, così sono pari!
A
volte i messaggi sono più articolati ma la storia è praticamente sempre
la stessa. I coniugi Bouin comunicano così, attraverso brevi frasi
scritte senza mai parlare, da quattro anni. Esattamente, da quando Emile
ha accusato Marguerite di aver assassinato il povero gatto che lui
amava e lei non sopportava, e perciò s’è vendicato spennando a sangue il
bel pappagallo a lei tanto caro. Quattro anni di reciproche accuse in
assoluto silenzio, scandito da sguardi feroci e battute di carta, in una
sfida claustrofobica e maniacale. Nessuno dei due può deporre le armi,
questo gioco è diventato la loro vita ed è fonte di un segreto e malato
piacere: mandarsi biglietti velenosi è per loro naturale e necessario
come per gli amanti è scambiarsi baci e carezze. La parola ‘gioco’, in
effetti, evoca erroneamente una nota di fanciullesca allegria. In
realtà, Marguerite ed Emile sono due anziani logorati da un odio
rancoroso che li ha uniti indissolubilmente, consumandoli giorno dopo
giorno in una grottesca asfissia. Tutto si svolge in modo lento e
cadenzato nelle loro vite, due esistenze intrecciate e allo stesso tempo
separate da un sentimento puro, senza ombre e contaminazioni, di cui
nessuno dei due può fare a meno, perché quello è diventato l’unico
antidoto contro la morte.
“Chi di noi due se ne andrà per primo?”
E’ questo l’unico pensiero che tiene in vita i coniugi Bouin, ognuno
scommettendo tra sé e sé su chi sopravvivrà all’altro. Tuttavia, quando
alla fine uno dei due si troverà realmente solo, l’odio tutt’a un tratto
sfumerà insieme ai rancori e all’amaro piacere della vendetta, per
lasciar posto all’unica certezza della vita. Perché si arriva sempre
goffi e nudi di fronte alla morte. In un lampo, si riaccenderà
nell’anima di chi resta l’affetto per le cose semplici e belle fino a
quell’istante condivise: il ticchettio della pioggia nelle sere
d’autunno, lo svolazzante
tailleur color malva sotto il sole pallido e
l’odore buono di cera passato sul parquet di un appartamento luccicante
solo d’inutili ricordi.
Il gioco dei coniugi Bouin finisce quando
uno dei due perde per sempre. Resta vivo, invece, il piacere della
lettura di questo romanzo di Georges Simenon che sembra invitarci a
sedere accanto a sé, alla macchina da scrivere, nella sua casa vuota di
Epalinges. E con la sua profonda levità, mette a nudo anche la nostra
anima, accompagnandoci attraverso l’ineluttabilità del tempo e della
vecchiezza che, paradossalmente, sembra diventare l’ultima stagione per
tornare ancora una volta bambini.
Paola Cerana