mercoledì 4 gennaio 2017

SIMENON SIMENON. COME HO INIZIATO A LEGGERE I MAIGRET...

Ricordi d'infanzia di un simenoniano

SIMENON SIMENON. COMMENT J'AI COMMENCE À LIRE LES MAIGRET...
Souvenirs d'enfance d'un simenophile
SIMENON SIMENON. HOW I BEGUN TO READ THE MAIGRET NOVELS…
Childhood memories of a Simenon fan


Nel gennaio del 1965 mio padre comprò a rate una tivù WattRadio che, data l'abitudine paterna di trascorrere le serate al bar, finivo per guardare insieme a mia mamma, sforando la regola del "a letto dopo Carosello". Prima del suo acquisto salivo nell'appartamento dei nostri padroni di casa dove nel salotto nuovo - rigorosamente protetto da fogli di cellophane - faceva bella mostra un apparecchio televisivo Philco. Una sedia vi veniva collocata davanti e io sopra, timido e compunto, a vedere "La tv dei ragazzi" che iniziava, se non rammento male, alle cinque e mezzo del pomeriggio.
Così entrarono in casa, costruendo quel delicato e complesso rapporto per cui un attore diventava parente - spesso parente stretto - della famiglia spettatrice, Gino Cervi, Andreina Pagnani e tutti i volti del cast: Mario Maranzana (Lucas), Gianni Musy (Lapointe), Franco Volpi (Giudice Comeliau), Daniele Tedeschi (Janvier) per ricordare i più noti.
Il primo episodio che rammento fu "Un natale di Maigret". La dolce fedeltà della signora Maigret, la stazza bonaria e forte del commissario ci conquistarono immediatamente. Mi sono sempre chiesto da dove derivasse la splendida recitazione di Gino Cervi, quell'aria insieme attenta e distaccata, quel parlare meditato e scandito come se, nel frattempo, seguisse un retropensiero ben più importante. Ovviamente non sapevo che Cervi non imparava nulla a memoria essendo un gobbista eccezionale, e neanche sapevo che quel rullo esterno alla scena dove scorrevano, a grosse lettere, tutte le battute, si chiamasse gobbo: quel distacco, quel movimento morbido dello sguardo, quelle lievi rotazioni del capo derivavano appunto dalla necessità di dissimulare la lettura del gobbo.
I personaggi di Luise e Jules non erano solo costruiti con abilità: il loro spessore, le loro sfaccettature se non sfumature erano più che verosimili e lasciavano trasparire in filigrana l’autenticità. Li ho sempre pensati reali, talmente reali che ci tennero incollati al video per le successive ventinove puntate, e ogni singola puntata rappresentava una festa.
Mi son chiesto spesso il perché di tanta affezione.
Non si trattava tanto delle indagini, dello svolgimento del “caso” in sé che, data la mia età, non capivo perfettamente nei suoi meccanismi. Il ruolo giocato dal commissario Maigret era l’accoglienza in un’intimità familiare che mancava a mia madre e a me. Un’intimità familiare fatta di piccoli e quotidiani avvenimenti - una pipa nuova, la cena dai Pardon, i manicaretti di Louise, una malattia di Jules – e anche una tranquillità borghese affidata a limpidezze comportamentali e a un’affettività discreta e mai ostentata nella suo essere riservata.
E allora ricordo, con nostalgico piacere, il gioco che decenne avevo inventato. Al termine della puntata indossavo una giacca, mi mettevo del borotalco tra i capelli per renderli brizzolati, fingevo di fumare una delle pipe di mio padre, producendomi così in una imitazione – a uso esclusivo di mia mamma – del commissario. E naturalmente la chiamavo “signora Maigret”.
Mia madre ne era felice e rideva, contenta. Questo ricordo, nella sua ingenuità, è oggi uno dei migliori di quel tempo che annunciava, in modi a me incomprensibili, la futura dissoluzione della mia famiglia.
L’intensità di quel rapporto parentale con i Maigret ha fatto sì che dal marzo 1966 ne iniziassi la lettura sugli splendidi settantasei volumi della collana Mondadori – quella con le copertine meravigliose di Ferenc Pinter -, volumi che ancora adesso possiedo e spesso rileggo con la stessa curiosità di cinquant’anni fa (e qualche rimpianto irrisolto).
Perché essere simenoniani è una malattia.


Paolo Casadio

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