Alla scoperta di alcuni romanzi dove si parla di treni
SIMENON SIMENON. LES TRAINS DANS L'OEUVRE DE SIMENON
A la découverte de quelques romans où on
parle de trains
SIMENON SIMENON. TRAINS IN SIMENON'S WORKS
To the
discovery of some novels where we are told about trains
Sono
molti i treni che attraversano le pagine di Simenon. I treni che deve prendere
Maigret nelle sue numerose trasferte anzitutto, quello che lo conduce dal
pallido sole autunnale di Parigi alle nebbie impenetrabili della Normandia, in
compagnia del misterioso capitano Joris, ad esempio (“Il porto delle nebbie”),
o quello che, al contrario, dalla pioggia parigina lo scaraventa sotto sole
della Costa Azzurra, affiancato dall’”amabilissimo” Mr. Pyke (“Il mio amico
Maigret”).
Uscendo
dai Maigret possiamo incontrare il treno dell’inizio de “Il pensionante”, il
treno della vertigine del delitto e della dannazione, ed il treno del finale di
“Senza via di scampo” che invece, rubando il termine all’amico Ignazio Licata,
potremmo definire il treno della “redenzione”, della riscoperta solidarietà con
gli esseri umani, con gli umili, una sorta di vertigine anch’essa, lentamente
assaporata.
Sicuramente
però i treni più celebri sono quelli de “L’uomo che guardava passare i treni”,
i treni di Kees Popinga, la versione simenoniana dell’uomo senza qualità, che
infatti ama circondarsi, in una sorta di compensazione, di oggetti di “prima
qualità”, e che una certa sera vede le proprie certezze distrutte. Ovvero dell’uomo
delle possibilità infinite, che dopo essersi liberato dalle costrizioni che si
è autoimposto per coerenza con il proprio personaggio scopre, sottraendosi a
leggi e convenzioni, di poter essere tutto ciò che desidera. Di tali infinite
possibilità sono concretissimo simbolo appunto i treni, quei treni che nella
notte vedeva passare con una “certa emozione furtiva, quasi vergognosa”, nei
quali intuiva un che di “vizioso”, termini anche troppo espliciti nel rinvio
alla sfera sessuale, a quelle turbe che rappresentano il lato più oscuro della
sua personalità, forse l’unico che resta oscuro a lui stesso, alla sua
spasmodica autoanalisi. Il consueto tema simenoniano del disperato tentativo di
evasione dalla banalità del quotidiano cui siamo stati costretti, cui ci siamo
costretti, da quarant’anni di noia, approda ad uno dei suoi esiti maggiori, a
quello sconcertante confine fra lucidità estrema e assoluta follia
rappresentato in tutte le proprie realistiche, deliranti minuzie e recessi, ad
uno dei personaggi più inquietanti partoriti dall’inesauribile fantasia di
Simenon, da quella profonda conoscenza della psiche umana che il nostro Fellini
fra i primi ha riconosciuto.
Dopo oltre vent’anni arriverà “Il Treno”, il treno della fuga dalla
brutalità della Storia e dell’incontro, lungamente atteso, con il destino, da
parte di un uomo che nonostante tutto è riuscito a crearsi una vita “normale”,
anche se forse solo un’illusione di vita normale, pur nell’oscura
consapevolezza che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto, sarebbe dovuto
accadere, ed attende con impazienza quel giorno, anche se quel giorno è quello
dello scoppio della guerra. E’ appunto l’incontro con Anna, in un treno di
sfollati, a far precipitare Marcel in uno spazio completamente estraneo alla
normalità della vita, ai suoi valori e convenzioni. Uno spazio vuoto, sottratto
al tempo, al passato ed ancor più all’avvenire, a quelle responsabilità che
della vita ordinaria costituiscono il più solido fondamento, forse l’unico,
assieme all’ineluttabile depositarsi delle abitudini, allo stabilizzarsi di
quei rituali familiari apparentemente immutabili, apparentemente eterni. Lo
precipita in un universo caotico ove tutto diviene possibile, anche il far
l’amore con una sconosciuta, appena uscita di prigione, in mezzo a quaranta
persone che, stipate per giorni in un vagone bestiame, accantonando ogni pudore
si accoppiano forsennatamente nella smania di sesso propria di chi non sa se
conoscerà un domani.
Gli fa scoprire che solo per tale via è possibile giungere il più vicino
possibile alla "perfetta felicità", una felicità talmente aliena alla
realtà quotidiana che forse “felicità” non è neppure la parola giusta, ma
l’unica approssimazione concessa dal linguaggio comune. Una felicità che si
nutre di sguardi e di comprensione istintiva, di un tacito riconoscimento della
“diversità” che li accomuna. Una felicità che non può durare, perché, se si
sopravvive, non c’è alternativa possibile al ritorno alla normalità, ma che
lascia un segno indelebile, segreto, in chi l’ha conosciuta. Una felicità priva
di prospettive. Una felicità di naufragi.
Luca Bavassano
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